IL PRESENTE SAGGIO E’ TRATTO DALLA MONOGRAFIA:

 

AA.VV. Ischitella e il Varano. Dai primi insediamenti agli ultimi feudatari., a cura di Teresa Maria Rauzino e Giuseppe Laganella, 3° volume

collana editoriale I Luoghi della Memoria del

Centro Studi Giuseppe Martella di Peschici, Cannarsa, Vasto, 2003.

 

 

 

 


 

I Pinto, principi di Ischitella e signori di Peschici

 

 

di

Teresa Maria Rauzino

 

Centro Studi “Giuseppe Martella”

di Peschici

La Terra di Ischitella

Il Dizionario storico-geografico di Lorenzo Giustiniani, edito nel 1806, alla voce “Ischitella” recita:

“Terra in provincia di Capitana­ta, in diocesi di Manfredonia, distante da Lucera miglia 48 in circa. Ella vedesi edificata in una collina a vista dell’Adriatico, che l’è a poca distanza, e che forma alla medesima un ameno e vasto orizzonte. Alle radici della sua collina sonovi delle picciole valli, e di là, delle altre collinette, e guarda pure il Gran Sasso d’Italia. L’aria che vi si respira è salubre in tutto il corso dell’anno per quanto attestano i suoi naturali”1.

In quel periodo, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio dell’XIX, nel territorio di Ischitella vi erano due boschi: il pri­mo, lungo quattro miglia e largo tre, assumeva diverse denominazioni a seconda dei luoghi; il secondo, detto L’isola di Varano, si presentava come una lunga striscia di terra, costeggiata dal mare e dal lago di Varano. Nel primo bosco abbondavano alberi di querce, faggi, elci, piante selvagge, oltre a sorgenti ricche di “buon’acqua”; nel secondo crescevano i pini d’Aleppo, da cui gli abitanti di Ischitella ricavavano abbondante pece, ottima fonte di guadagno. In queste selve era possibile effettuare “molta caccia di quadrupedi e di volatili”; pochissimi i rettili velenosi presenti, tra cui le vipere e gli aspidi. La parte pianeggiante del territorio era “a seminativo” oppure “addetta alla piantagione delle viti”.

Anche qui si trovavano ricche sorgenti d’a­cqua ed i terreni erano fertili. Gli oliveti, che davano un prodotto di ottima qualità, “allignavano bene” sulle colline; non mancavano frutta ed ortaggi d’ogni tipo.

Il Giustiniani rileva i dati demografici e socio-economici, oltre ai “limiti” del territorio: Ischitella confina con le Terre di Vico, Rodi, Carpino; l’abitato dista circa cinque miglia dal lago di Varano. La popolazione è di 3.070 abitanti, che praticano la pastorizia nei boschi, l’agricoltura in pianura ed in collina e la pesca nel lago, “da tutto ciò ricavando essi molto profitto commerciale con altre popolazioni del Regno”. Costituivano altresì capo (fonte) di guadagno: l’estrazione della pece, la raccolta del miele, della man­na, dei “legnami” e la concia delle pelli2.

Quasi in contemporanea al Giustiniani, l’illuminista di Vico Michelangelo Manicone, nella sua Fisica Appula edita nel 1806, descrive il territorio di Ischitella, soffermandosi sulle caratteristiche del lago di Varano: “Intorno a questo lago vi sono numerose paludi prodotte dallo stravaso delle sue acque e di quella del canale di comunicazione fra il lago e il mare”3. La “Foce”, lunga circa due miglia, è tortuosa e profonda. Il livello delle acque dell’Adriatico è inferiore a quello delle acque lacustri, come dimostra la corrente del canale. Quasi mai vi penetrano le acque marine: “ecco perché nelle paludi si pescano in gran copia delle grosse tinche, nemiche nate del salso”4. Alla fine del Settecento, le paludi del Varano erano, quindi, ancora “paludi d’acqua dolce”5.Il Manicone mette in evidenza i precari equilibri ambientali, che rendono alquanto critiche la salubrità di tutta l’area gravitante intorno al Varano: l’acqua stagnante vizia l’aria, e decima la popolazione. Le sostanze organiche in decomposizione sono una gravissima fonte d’inquinamento. Nei primi due mesi dell’autunno, l’aria vi acquista codesta “velenosa” caratteristica, che non solo arreca malattie alla salute umana, ma spesso provoca “l’esterminio, e la morte”. Le paludi sono dei “veri e propri carnefici dell’uomo e delle bestie”: le micidiali esalazioni provocano la morte degli animali “baccinj” (armenti di vitelli) che vi pascolano intorno6.

A quel tempo, nel Piano di Varano si coltivava una grande quantità di lino, che veniva “macerato” nelle paludi del lago. Per il Manicone, la prova tangibile che la macerazione di questa fibra tessile in acque stagnanti sia una pericolosa sorgente di malattie e di morte è costituita dalla immediata morìa dei pesci, e dall’insopportabile “fetore” nel tratto di lago interessato a questa attività produttiva. Secondo il frate vichese, la “fermentazione ottimale” delle fibre del lino avveniva meglio nell’acqua stagnante che in quella corrente: “la macerazione fassi più presto in quella, che in questa”. Ma i vantaggi economici comportano quelli che egli chiama “mortali svantaggi fisico-medici”. Ecco perché, da buon illuminista, ammonisce gli ischitellani che, troppo presi dalla smania del guadagno, preferiscono trattare la fibra in acque stagnanti, dicendo che “è meglio aver un lino meno forte, che morire, o quanto meno ammalarsi”. E li invita a seguire l’esempio dei vichesi, che macerano il lino nelle acque correnti: “In Ischitella far potrebbesi altrettanto; perché vi è abbondanza di tali acque”7.

Ischitella, distante poche miglia dalle paludi di Varano, all’inizio dell’Ottocento è quindi un paese mefitico, nonostante il territorio sia ricchissimo di boschi, con alberi di faggi, cerri, carpini, e nonostante la sua valle sia sempre verde, “giocondissima per l’amenità de’giardini d’agrumi” e “circondata da deliziose e fruttifere colline”8. L’“abbondanza di aria vitale” emessa da tanta vegetazione presente sul territorio viene trasportata dai venti ad Ischitella, ma il Libeccio ed il Maestro provenienti dal Varano “vi conducono i letali gas che da esse paludi si svolgono”. Manicone, per convincere i lettori di questa sua sua tesi, li invita a osservare i volti degli abitanti, in primis quelli delle donne: generalmente sono volti mefitici9. Egli individua anche un’altra causa “accidentale” di insalubrità ambientale: le infime condizioni igieniche dell’abitato. Qui, quasi tutte le strade interne sono strettissime “perché non vi può marciare che un asino appresso l’altro; né si tengon nette, e monde. Or dove le strade sono anguste, sporche ed ombrate, ivi vi è il mefitismo”. Ogni casa ha la sua fogna, ossia “luogo comune, ma gl’orifizi mancano di coperchi”, o se li hanno, non riescono a impedire la fuoriuscita dei gas letali. E conclude sconsolatamente: “soffiando o Levante o Scirocco, o Libeccio, il puzzo ti ammorba”10. Il suo consiglio agli ischitellani è di ricoprire, ogni mattina, le fogne o di cenere, o di terra umida. Per non “mefitizzare” l’aria di un luogo, le cloache dovrebbero confluire o nel mare o in qualche fiume.

Una soluzione che non risponde esattamente ai moderni criteri di trattamento e smaltimento dei reflui organici, ma si spiega pensando che allora i reflui venivano lasciati a cielo aperto o nelle strade interne del paese o buttati oltre le mura esterne”. Ecco perché tali mura erano brutte, schifose, puzzolenti11.

Il Manicone, a questo punto, lancia uno strale polemico verso i principi Pinto, illustri “Possessori” dei luoghi cennati: “Qui la strada da passeggio è quella, che dalla porta del ponte va verso la taverna. In questa strada, e propriamente vicino al sontuoso palazzo del Principe, vi han dei mucchi di letame, e quivi putrefar si fanno i cani morti. Lo stomachevole puzzo è dunque vicino a’nasi di coloro, che in detta strada spasseggiano. I governanti del paese abolir dovrebbero questa schifosa e nociva costumanza. Ma ad abolirla non si pensa; perché si pensa solo all’utile proprio!”.

Una rappresentazione globale del territorio, quella dello studioso francescano; un’analisi nella quale non si è addentrato il Giustiniani nella sua idilliaca rappresentazione di Ischitella. La speranza di cambiamento, di un futuro diverso, é tuttavia sempre vivissima in Michelangelo Manicone, visto che lancia il seguente proclama: “Abitanti d’Ischitella, fate festa. Il Regno dello Spirito pubblico è già venuto; dunque l’Egoismo finirà!”12.

Un Capitolato tra l’Università di Ischitella e i Baroni Turbolo

Per avere un’idea dei rapporti esistenti tra i feudatari e la comunità di Ischitella, si riporta qualche stralcio di un importante documento13, rivenuto da Giuseppe Laganella nell’Archivio di Stato di Lucera, e dallo stesso citato nella propria relazione. Nel testo, una sorta di verbale stilato durante una pubblica assemblea, e dopo “ampia discussione”, sono riportati gli obblighi e i diritti sia degli abitanti dell’Università nei confronti del barone Turbolo sia di quest’ultimo nei confronti di detta comunità.

Il Capitolato fu varato il nove dicembre 1593, dopo una prima convocazione “a suono di campana” dei decurioni della Magnifica Università della Terra di Ischitella, che definirono preliminarmente le rivendicazioni da sottoporre all’Illustre Possessore Barone Turbolo. Lo sottoscrissero il Giudice Jan Battista d’Errico, Don Ascanio de Marcello (Archiep.), il Rev. Don Joseph Maiorana (Maiorasca), Panfilo Velella, Leonardo Piccininno, Lucatelli, Carolo de Sarro tutti residenti nella Terra di Ischitella, ad eccezione di Joffreda della Terra Pescutij (di Peschici). Dai vari capi del nuovo regolamento si evincono quelle che erano state fino ad allora le “pretese” dei Turbolo nei confronti degli abitanti della cittadina. Detti Baroni li costringevano a pagare, per gli animali che pascolavano nei boschi, le seguenti somme in denaro: due carlini per “porco” e quattro carlini per “vaccino”. Anche per raccogliere la manna nei boschi dovevano pagare la “fida”, di cui non è precisata l’entità. Il barone Turbolo pretendeva di “pigliare l’acqua per adacquare il suo giardino a suo modo e volontà, proibendo agli altri di pigliarla contemporaneamente”, così come pretendeva “di servirsi dei corrieri, muli, buoi ed altre bestie dei cittadini per qualsivoglia servizio, pagandoli solamente con la forma della “Regia Pragmatica”. Inoltre costringeva i cittadini, “che avevano bestie”, a portargli ognuno “una soma di legna e una di paglia”.

Da parte dell’Università, le rivendicazioni di esonero dal pagamento di questi balzelli si basavano sul fatto che “i cittadini della Terra de Ischitella ab antiquo, et da tempo immemorabile avevano potuto, e potevano, a loro discrezione, pascolare e raccogliere ghianda” senza pagamento alcuno. Solo da quando Ischitella era “tenuta per potere” dai signori Turbolo, i suoi abitanti erano costretti a pagare o a fare depositi per gli animali posseduti, e questo pagamento era contrario alla loro antica libertà14.

E si elencava una lunga serie di diritti usurpati dal barone, che si intendevano riaffermare a favore dei cittadini dell’Università. Un diritto imprescindibile, cui non si voleva assolutamente rinunciare, era quello dell’acqua per innaffiare i giardini: si pretendeva che “detto Signor barone non potesse proibire ai cittadini di detta Terra di potersi pigliare a loro piacimento l’acqua per adacquar, ma che si abbia fare la “tavola” (turnazione), e il Signor barone dovesse rispettarla come tutti gli altri cittadini”.

La popolazione era stanca delle numerose corvées15 cui era sottoposta, e perciò si precisa che il barone “volendosi servire dei corrieri, muli, buoi ed altri animali dei cittadini”, è tenuto a pagarli “così come li pagano gli altri cittadini di essa terra”.

Il feudatario Turbolo dovette scendere a patti ed acconsentire alle varie richieste. Nelle formule del Capitolato si usa significativamente la formula “detto Barone si contenta che li cittadini possano”:

–  “fare manna in detto bosco, e territorio a loro arbitrio e volontà tanto per uso quanto per industria, venderla ai forestieri e a chi gli pareva senza pagare cosa alcuna a detto Signor barone”;

–  “che per l’acqua che serve ad adacquare i giardini si faccia la turnazione e di stare alle regule come tutti gli altri cittadini”;

–  “che avendo bisogno di corrieri (cavalli), muli e altre bestie “somarine, bovine e cavalline”, debba pagare ai padroni degli animali le somme stabilite per tutti gli altri cittadini. Volendo utilizzare “bestie e some per Napoli abbia a pagare carlini venticinque; volendole per altri luoghi di detta terra sia tenuto esso barone pagar grana venticinque per i cavalli, e due carlini per i somari, per andare e tornare”;

–  detto signor Barone “si contenta che i cittadini di detta terra non siano tenuti né possano esser astretti a portare né legne né paglie ad alcuno”;

–  nelle tenute, chiamate la Defensa della Fontana e la Defensa di bascia alla padula, non sarà permesso ad alcuno di “liberare animali indomiti”.

Anche il Barone Turbolo, pur essendo il proprietario della Terra di Ischitella, è quindi tenuto a rispettare “le regole”. Come tutti gli altri cittadini. E’un “patto” senza dubbio innovativo, che modifica il codice che ha sino ad allora regolato il rapporto tra feudatari e popolazione. Per “detto” signor Barone esso comportava, come riconosciuto dai naturali Ischitellani stessi, sostanziali rinunce. Infatti, per permettergli di “rifarsi” dei diritti perduti, si deliberò a suo favore una ricompensa, un indennizzo di “docati milledoicentocinquanta” (1.250 ducati, una somma enorme a quei tempi) più una cautela dell’8 per cento.

Era il 1593. Dovevano passare oltre due secoli per assistere all’abolizione della feudalità che aveva contribuito a ritardare lo sviluppo economico e sociale dei vari Stati, e che l’erudito frate di Vico del Gargano definiva semplicemente: “Egoismo”.

Una piccola nota. I baroni Turbolo16  furono feudatari di Ischitella e di Peschici sino al 168117. Bernardino Turbolo nel 1572 aveva acquistato la baronia di Ischitella e Varano da Ferrante di Sangro, figlio di Adriana Dentice18. L’aveva pagata 54.042 ducati19. Il Litta afferma che, nel 1596, Giovan Francesco Turbolo rivendette Ischitella a suo fratello Giovan Bernardino per 54.000 ducati, “pagandoli all’Ospedale degli Incurabili di Napoli in parte del legato fatto a detto luogo da Prospero Turbolo”20. Nel 1622 i Turbolo erano diventati anche feudatari di Peschici, acquistandone il marchesato. Discendevano da una nobile, antica famiglia del Casale di Nerano: il capostipite, Domenico, già alla fine del Duecento viveva a Massa Lubrense e possedeva dei beni burgensatici a Sorrento21.

Fin dal Cinquecento, i Turbolo “godettero nobiltà” nel Seggio di Porto di questa città22; poi si trasferirono a Napoli. Berardino fu il primo della famiglia ad aprirvi un “ banco pubblico”, ricavandone ingenti ricchezze23. Acquistò una cappella nella chiesa di Santa Maria la Nova di Napoli, dove fu posto il suo monumento funebre24.

Prospero, come il fratello Berardino, fu anch’egli banchiere in Napoli, ma si occupò in particolare del commercio con i lontani paesi dell’India e dell’Etiopia, “ricavandone gran frutto”25.

I Turbolo si imparentarono con illustri case nobiliari di Napoli come i Caracciolo, i Guevara, i Pignatelli, i Latro e i Donnorso.

Tra i benemeriti della famiglia, il Filangieri ricorda il monaco Severo Turbolo, il quale fu Priore della Certosa di San Martino a Napoli per oltre un trentennio e successivamente in quella di Pavia. Fu un uomo molto stimato ai suoi tempi. Nel periodo in cui resse la Certosa di Napoli, che ebbe il massimo lustro proprio sotto il suo “governo”, chiamò i migliori artisti del suo tempo, facendo adornare il monastero e la chiesa di quadri, affreschi e stucchi27. Il 28 giugno 1589 incaricò il pittore Giuseppe Cesari, celebre col nome di Cavalier D’Arpino, di affrescare la volta del Sancta Sanctorum della chiesa. L’11 novembre 1593 commissionò all’argentiere Antonio Gentili da Faenza “un piede di Croce d’argento al prezzo di mille scudi”. Padre Severo Turbolo fece rivestire tutta la sacrestia di legno scolpito e l’arricchì di arredi sacri. “Per tali opere – come riferisce il Persico - spese 70 mila ducati, accrescendo nel tempo istesso le entrate della Certosa”28. Qui fu Vicario per molti anni, e nel 1583 fu eletto Priore29. Resse la Certosa fino al 1597, allorché fu trasferito al Priorato della Certosa di Pavia e nominato Visitatore Lombardo. Morì il 28 agosto 1608 e fu sepolto nella Certosa di Santa Maria degli Angeli30.

Da Filangieri Di Candida vengono ricordati altresì, fra le personalità illustri della famiglia Turbolo, il filosofo ed astrologo Anello che eccelse nelle scienze matematiche31 e l’economista Giovan Donato, autore di varie opere tra cui una “Sul rinnovo della lega delle monete del Regno di Napoli”32. Nel 1630 costui tornò a Sorrento e sostenne una “lite di reintegra” presso il Seggio di Porto, ottenendo l’inclusione nel seggio nobiliare “senza aspra opposizione”, nonostante la sua famiglia avesse esercitato per tanti anni la mercatura33.

I Turbolo si estinsero nella famiglia dei Severino Duchi di Seclì (Lecce). Il loro palazzo fu comprato da1 Monte dei poveri vergognosi per istituirvi un Conservatorio34.

Una piccola curiosità araldica: i Turbolo usarono un’arme “Di azzurro alla fascia accompagnata nel capo da una stella a sei raggi e nella punta da un delfino, il tutto di oro”. Questo “segno” è presente nella cappella di famiglia della chiesa dell’Annunziata di Massa Lubrense; nella cappella della stessa famiglia in Santa Maria la Nova in Napoli, il delfino è invece nuotante sulle onde. Si attribuisce ai Turbolo anche un altro stemma: Di oro al monte di nero cimato da una gazza al naturale35.

Le origini dei Pinto

Al tempo in cui padre Michelangelo Manicone abitava nel convento di San Francesco, Ischitella era un feudo dei Principi Freitas Pinto “al presente Pinto y Mendozza”.

Un manoscritto di F.E.Montecco36  risalente al 1693 ci informa, in modo davvero non convenzionale, sulle origini di questa famiglia. L’originalità della fonte consiste nel fatto che il documento non è seriale: non è tanto per intenderci il solito panegirico della famiglia notabile, tipico di tante agiografie. Maliziose “avvertenze per il lettore” costellano dall’inizio alla fine il testo, rendendo la lettura piacevole come se fosse una cronaca rosa dei nostri tempi.

Il Montecco esordisce mettendoci al corrente di particolari inediti, quale ad esempio la presunta professione di fede ebraica dei Pinto: “Questa famiglia che al presente per le ricchezze, titoli, cariche e nobili Parentadi, fà molta figura in Napoli, è Portuese (Portoghese) di origine, popolare di conditione, e sono anche alcuni di opinione che sia di setta Giudaica. Una setta molto fertile in quel Regnio, siccome habimo veduto in molte di queste famiglie venute qui che, in palese mostrandosi esser Cristiani, in segreto poi osseruono (osservano) con molta puntualità il rito Giudaico, del che accusati ne furono ha nostri tempi e castigati”37.

Indubbia, secondo il Montecco è l’origine popolare, per la precisione mercantile, del “nobile” casato: il capostipite della famiglia, che dal Portogallo “trapiantò” la sua casa in Napoli fu Don Loise Freitas. Era conosciuto da tutti gli anziani della Città di Napoli come un “insignito” dell’abito di Avis della sua nazione. “Un abito - continua il Montecco - solito (a) darsi anche à personaggi ignobili, cioè non nobili. Questo abito era però simile nelle fattezze, et nel colore al nobilissimo d’Alcantara”38.

Oggi non riusciamo a spiegare il perché, con il passare del tempo, la famiglia tenderà a vantare una discendenza nobiliare da chi vestiva l’“abito” spagnolo di Alcantara, piuttosto che quello portoghese di Avis. A Napoli evidentemente non si sapeva, ed anche il Montecco cade nell’equivoco, che l’Ordine di Avis era il corrispondente portoghese del nobilissimo Ordine di Colatrava, che insieme a quello di Alcantara, di Santiago e di Contesa era uno dei quattro Ordini Nobiliari più prestigiosi di Spagna. Forse è il desiderio di integrarsi a pieno titolo nell’aristocrazia spagnola che spinge i Pinto a nascondere le origini portoghesi, e ad acquistare credito imparentandosi con le famiglie napoletane esponenti dei Seggi nobiliari più prestigiosi, quello di Porto e quello di Capuana.

Il Montecco ci documenta “la cronistoria” della scalata sociale nella Napoli di fine Seicento della famiglia Pinto: Don Louise trasferì in Napoli le sue “pinguissime ricchezze”, guadagnate con l’esercizio della mercatura da lui e dai suoi antenati. Con i solidi capitali, “potè crearsi uno stabile piedistallo”. Il casato “ebbe con lui due figliuoli di qualche apparenza, li quali essendo entrati nell’età dell’adolescenza spacciavano dà per tutto nobiltà, e cavalleria”. Non mancarono, nel ruolo di “clienti d’eccezione”, personaggi insigni della città, nobili spiantati che, attratti dalla ricchezza dei due rampolli Freitas Pinto, li accompagnavano “corteggiandoli, e adulandoli”. Li inserirono negli ambienti elitari della Napoli di quel tempo. Il primogenito di don Louise si chiamava Emanuele, il secondogenito Gasparre. Il padre, “volendo dar principio alla nobiltà della Casa procurò di accoppiarli in Matrimonio a nobildonne, come in effetti fece”39. Emanuele sposò Geronima Capece Bozzuto, figlia di Teresa Griffo, del Seggio di Porto40, e di Don Fabrizio del Seggio di Capuana di Napoli. In seguito, anche il secondogenito Gasparre prese per moglie Angiola Legni, del medesimo Seggio. Ambedue le fanciulle erano senza dote: “quanto ricche di bellezza corporale e di nobiltà, altrettanto pouere (povere) di beni di fortuna”41. Don Luise solo per pochi anni potè godere la compagnia di queste amabili nuore: “Vide propagata la sua famiglia con dei Nipoti, mà istesso pervenuto all’età decrepita finì di uiuere (vivere) in questo Mondo lasciando l’infinite sue ricchezze a’figliuoli”. Non dimenticandosi di favorire, come ogni nobile iberico degno di rispetto, il figlio maggiore. Il patrimonio spettò quasi interamente al primogenito, che migliorò la sua condizione con centomila ducati in più rispetto alla “sua porzione”42.

Il Montecco ci informa che Don Louise fu sepolto a Napoli nella Chiesa di Santo Spirito dei Padri Predicatori, di fronte al Palazzo Regio43, e precisamente nella seconda Cappella a sinistra dell’entrata della Chiesa per la Porta maggiore44. Ci segnala che proprio qui venne posta un’epigrafe, con una “lunga iscrizione” commemorativa, ma tralascia di trascriverla “per brevità potendola ogn’un uedere (vedere)”. Mette però fortemente in dubbio che quanto è stato scritto nell’epigrafe tombale di Don Loise, a vanto della nobiltà del personaggio e della sua casata, corrisponda a verità: la menzogna è tanto evidente che salta agli occhi anche degli stolti: “Tutti gli uomini, persino quelli non solo di mediocre, mà di poco intendimento, sanno bene che tali memorie, e iscrizioni si fanno speciose, e magnifiche, piene di bugiarde vanità, per far credere agl’Ignoranti quel che mai fù, siccome è questa inguine all’origine della famiglia, e gl’antichi innuentati (inventati) personaggi, et alle cariche militari esercitate”.

Per provare la verità del suo assunto, ci racconta quella che egli chiama una “nobil curiosità” a proposito di “quando s’intagliò la detta iscrittione”, al tempo cioè della sepoltura del capostipite della famiglia Pinto. Don Emanuele e Don Gasparre, per avvallare la nobiltà del morto agli occhi di tutti, fecero “porre sulla persona di Don Luise l’habito di Alcantara in luogo di quello d’Auis (Avis)”. Ma la cosa non passò inosservata: i Cavalieri di quell’ordine nobilissimo se ne accorsero e “ne fecero un sì gran rumore che fù di bisognio alli eredi di quello farlo toglier via, e ponerui (porvi) l’altro d’Auis (Avis)”. “E ciò - rimarca Montecco - è notorio per non esser fatto molto antico”. Una vera e propria umiliazione per i giovani e rampanti eredi Pinto, costretti a svestire pubblicamente il cadavere del padre di un abito “nobiliare” che non gli apparteneva e rivestirlo con un altro di che tutti consideravano, anche se a torto, di umile origine45. Un affronto che dovette pesare, spingendo la famiglia a volere a tutti i costi sancire, anche dal punto di vista strettamente giuridico, una nobiltà non posseduta dalle origini, o perlomeno ritenuta di rango inferiore dall’opinione corrente di chi vantava il proprio “sangue blu”.

Le immense ricchezze derivanti dalla mercatura, che il primogenito ereditò dal padre, gli permisero di acquistare un intero feudo sul Gargano, con il relativo blasone principesco. Don Emanuele, primogenito di Don Louise, “fe’compra della Terra di Ischitella nella provincia di Capitanata, sopra della quale ottenne titolo di Prencipe, e ciò oltre di magnifiche possessioni, e beni stabili”. Comprò altresì remunerative mansioni ed “uffici” del Regno di Napoli: “fe’anco compra del decoroso, e lucroso officio di Scrivano di Ratione alla Regia Corte”. Questa carica, unita a quella di Consigliere di Stato ed allo “specioso titolo di Prencipe”, gli permise di diventare un “personaggio di molta stima, e rispetto”. Grazie alle sue ingenti ricchezze, che maggiormente gli spianarono la strada, potè essere finalmente insignito “dell’abito nobilissimo de’Caualieri (Cavalieri) di Colatraua (Colatrava)”, per ricompensa avutane dal Re”46.

Intanto, la famiglia si era ingrandita: Don Emanuele Pinto e Donna Geronima Capece Bozzuto ebbero “più figliuoli così dell’uno come dell’altro sesso”. Il Montecco tralascia di nominare “quelli che sono morti prima degli altri”, e si occupa di quelli in vita: quattro maschi (Don Luise, il primogenito, destinato dopo la morte del padre ad ereditare il titolo ed i beni della famiglia; il secondo “che tiene l’Ufficio di Scrivano di Ratione”; il terzo Don Antonio, et il quarto Fortunato), e due femmine (la prima, Donna Teresa, è maritata con buona dote al Marchese di Brienza, Don Giuseppe Caracciolo; l’altra è Monaca nel monastero di San Sebastiano)47.

La nostra “fonte documentaria” non esita a riferirci una “notizia piuttosto riservata” che, dopo la morte di don Emanuele, circolava a Napoli sulla sua vedova Geronima Capece, madre dei Principi Pinto: “La Bozzuta vive nella stessa casa dei figli, e dicono le male lingue de sfaccendati che malamente parlano de’fatti altrui che poco serba il decoro della sua honesta (onestà); et hauendo accumulato col defonto (defunto) Marito peculio di consideratione ultimamente nell’anno 1694 è passata alle seconde nozze con Don Fabio de Dura al quale per detto affetto hauea (aveva) ella procurata la grazia della scarcerazione”. La “principessa” madre si era dunque risposata: un secondo matrimonio chiacchierato, addirittura “indecoroso” con un nobile spiantato e poco raccomandabile, che ha addirittura subìto l’onta del carcere e che solo grazie all’influenza a corte della nobildonna è stato graziato e liberato48.

Il Montecco ci riferisce delle notizie anche sul ramo cadetto dei Pinto e precisamente sul secondogenito della famiglia: Don Gasparre, fratello di don Emanuele. Questi, nonostante sia stato fortemente penalizzato nella divisione del patrimonio, vive anche lui “con splendore”. Esercita l’Ufficio di Tesoriere Generale del Regno49, cui è annesso quello di Consigliere di Stato. Ha preso in moglie Angiola Lagni, del Seggio di Capuana, figlia del Marchese Romagno, anch’ella senza dote alcuna perché secondogenita e non si poteva disperdere in più rivoli il patrimonio del casato. Dal matrimonio erano nati tre figli maschi: Luise, Gregorio, e Antonio, “tutti di buon’indole”, ed una femmina, Catarina. Nell’anno 1693, costei venne maritata con ricca dote a Don Antonio Montalto, Duca di Fragnito. Alcuni parenti piuttosto altolocati dello sposo - è sempre il Montecco che ci informa in proposito - non approvarono questo matrimonio. “Particolarmente il Duca di Picodefumo di Casa Filomarino, suo cognato, ne fu tanto disgustato che non volle intervenire in modo alcuno alle nozze”. Catarina non poté godere molto della compagnia del marito, perché “doppo due mesi ò poco più del contratto sponsalitio è rimasta di questo Vedua (vedova), è grauida (gravida), et à suo tempo poi diede alla luce un maschio al quale fu posto il nome del Padre”50.

Il Montecco ci ragguaglia infine sulla sorte della bella vedova: “essendo per la sua dote desiderata in moglie dà diversi personaggi, finalmente fù conchiuso Matrimonio con Mario Loffredo Marchese di Monteforte, figlio primogenito del Principe di Cardito, il quale stando in Roma come Agente della Città di Napoli per la causa dell’Inquisizione, ottenne dal Sommo Pontefice la dispensa del Matrimonio, essendo cugino del defunto Duca di Fragnito, Primo sposo della Dama”. Il matrimonio fu celebrato appena arrivò la dispensa pontificia. Nel 1705 il marchese Loffredo, “novello sposo” di Catarina, successe nel Principato al padre, morto in quello stesso anno51.

L’analisi del documento di Montecco ci ha spinto a condurre una ricerca storiografica per sciogliere un punto oscuro: perché i finanzieri portoghesi Freitas Pinto decidono di trasferirsi dalla Spagna a Napoli e quindi ad Ischitella? Il nome di un Pinto, senza dubbio un antenato della famiglia che comprò il principato garganico, è citato da due insigni autori che hanno trattato la storia dell’Inquisizione. Henry Kamen, parlando degli effetti delle denunce di ebrei convertiti, perseguiti dal Tribunale ecclesiastico, afferma che, specie dopo la caduta del conte di Olivares, enormi somme furono confiscate dall’Inquisizione spagnola ai banchieri portoghesi: nel 1636 ben 300.000 ducati furono versati, ad esempio, da un certo Manuel Férnandes Pinto52. La circostanza è spiegata così da Bartolomè Bennassar: nel 1626, la prima bancarotta del regno di Filippo IV aveva facilitato l’integrazione nel Regno di Castiglia di alcuni ricchi finanzieri portoghesi, che presero il posto dei banchieri genovesi ormai in stato di fallimento. Nonostante la contestazione dei contemporanei, il primo ministro, conte duca di Olivares aveva favorito l’accettazione della ricchezza ebraica, considerandola un mezzo per rimpinguare le casse vuote dello Stato. Nel 1628, influenzato dal conte duca, Filippo IV accordò ai finanzieri portoghesi la libertà di sistemarsi in Spagna e di commerciare. Ciò permise loro di estendere la propria influenza sulle principali direttrici di scambio fra la Spagna e l’America: dal 1627 comparvero, nella Hacienda Real, nomi di chiara derivazione portoghese come Fernàndez Pinto, Nunez Saravia e Duarte Fernandez. Ma ben presto costoro, chiamati col nome dispregiativo di marrani, divennero vittime della persecuzione razziale. Dopo la coraggiosa rivolta del loro paese contro la Corona spagnola nel 1640, essi furono guardati con sospetto, e considerati dai castigliani una specie di quinta colonna del Portogallo. A questo punto, la repressione si scatenò contro i ricchi cripto-giudeizzanti, generalmente portoghesi, e le confische di grosse fortune furono all’ordine del giorno. Nel 1636, dieci anni prima della caduta di Olivares, l’In­quisizione intentò un’azione giudiziaria contro il finanziere Manuel Fernàndez Pinto, accusato di giudaismo. Quest’ultimo, nel corso della sua carriera, aveva prestato a Filippo IV ben 100.000 ducati, ma il tri­bunale riuscì a estorcergli, nel corso del processo, l’enorme somma di 300.000 ducati sotto forma di confische 53. Gli sforzi di Olivares per integrare i marrani portoghesi nella so­cietà spagnola si erano rivelati vani. Alla sua caduta, i finanzieri portoghesi stabilitisi in Spagna si trovarono in una situazione diffi­cile: senza patria e senza un appoggio ufficiale. I­niziò una nuova era di repressione, diretta dall’In­quisitore generale Arce Reinoso che or­ganizzò una vera e propria caccia a tutti i sospetti di giudaismo ap­partenenti all’ambiente dell’alta finanza o al mondo artigianale. I secoli XVII e XVIII furono contrassegnati dalla distruzione di famiglie potenti. I loro nomi scomparvero per sempre dall’elenco dei banchieri al servizio della Corona. La repres­sione non risparmiò i conversos che rivestivano cariche pub­bliche e furono rari quelli che riuscirono a salvarsi. Se la recrudescenza delle persecu­zioni arrivò a toccare le grandi famiglie dei ricchi marrani, la maggioranza dei conversos di umili origini subì in silenzio la politica repressiva dell’Inquisizione54. I registri delle confische confermano il moltiplicarsi degli arresti: a Cordova, per esempio, negli anni 1541-1543, la somma dei beni sequestrati si aggirava sui 10.501.126 maravedis55  (28.488 ducati) mentre un secolo più tardi (1652-1655) era di 52.100.115. In quel periodo, il numero dei processi per giudaismo fu elevato; delle ottantotto persone che comparirono all’autodafé di Llerena il 23 aprile 1622, settantot­to furono condannate per giudaismo di cui settantuno riconciliate, due rimesse al braccio secolare e quattro arse in effigie. La mag­gior parte degli accusati erano portoghesi o discendenti di porto­ghesi stabilitisi nelle grandi città: Trujillo, Caceres, Plasencia, Mé­rida, Don Benito, Villanueva de la Serena, Almendralejo e Valencia di Alcantara, dove svolgevano essenzialmente un’attività commer­ciale: i due condannati a morte erano dei mercanti. Per sfuggire all’offensiva del Santo Uffizio, 12.000 famiglie di conversos, negli ultimi vent’anni del Regno di Filippo IV, espatriarono, ma soltanto i più ricchi, come i Freitas Pinto poterono rifarsi una solida posizione economica all’estero, grazie alle enormi ricchezze ancora possedute.

Priva del sostegno finanziario dei marrani56, la Spagna si av­viò alla decadenza57. A beneficiare delle ricchezze dei conversos espatriati furono gli Stati che li accolsero e che li integrarono nella nobiltà locale. Scrive Attilio Milano, a proposito di Napoli: “Non pochi Ebrei convertiti, con il nuovo casato assunto ed i privilegi ad essi connessi, entrarono a far parte della più elevata nobiltà del Regno”58. Recentemente, Angelo Scordo ha affermato che, a tale proposito, meritano un cenno, fra alcuni “grandi nomi” del regno di Napoli d’origine ebraica ispano-portoghese, i Freitas Pinto poi Pinto y Mendoza, principi d’Ischitella59.

Napoli vantava tradizionale tolleranza nei confronti degli Ebrei dal tempo di re Ferrante d’Aragona, creduto figlio illegittimo di Alfonso il Magnanimo e di una ebrea. Non erano mancate le “persecuzioni”: la più grave fu quella del 1288, in seguito all’editto di Carlo II lo Zoppo, che bandì gli Ebrei al pari degli usurai lombardi e caorsini, dalle provincie dell’Angiò, del Maine, della Provenza e del Piemonte60. Ciò aveva portato ad una conversione di massa di circa 8.000 ebrei che si fecero battezzare. Con l’editto del 1° maggio 1294, Carlo II aveva stabilito che i ‘neofiti’ dovessero assumere i cognomi cristiani dei loro padrini, appartenenti alla più alta nobiltà61.

Come nei regni spagnoli e portoghesi, i numerosi ebrei che si insediarono a Napoli beneficiarono di uno statuto non scritto di tolleranza da parte dello Stato. Godettero, di fatto, di una particolare protezione da parte dei sovrani. Difficili, e contraddistinti da reciproca diffidenza, furono invece i normali rapporti di vita quotidiana fra ebrei e cristiani. Agli ebrei era consentito tutto quello che era considerato “peccato” e vietato ai cattolici praticanti: tenere aperte le botteghe in occasione delle numerose festività religiose, effettuare prestiti a interesse. E questo suscitava l’indignazione popolare. Lo stesso Montecco, autore del documento da noi analizzato, cita il fatto che da parte di molti conversos portoghesi l’adesione alla fede cattolica fosse un atto puramente formale. La famiglia Freitas Pinto, ormai Pinto y Mendoza, è accusata -e il Montecco riferisce con dovizia la circostanza- di continuare a celebrare “segretamente” i riti giudaici, nonostante questo comportamento sia stato già censurato e “condannato” dal Tribunale dell’Inquisizione del paese di provenienza.

I Principi Pinto a Ischitella e a Peschici

Lo storico Ciro Cannarozzi dedica un intero capitolo delle sue Biografie Ischitellane62 ai Principi Pinto, che chiama “una famiglia illustre di feudatari”. I Pinto y Men­dozza Capece Bozzuto presero possesso del feudo d’Ischi­tella il 19 novembre del 1674. Nel 1681 i cedolari attestano che fu il principe Luigi Pinto-Mendoza a pagarne l’adoha 63.

Il possedimento, comprendente i feudi di Peschici e Ischitella, era appartenuto inizialmente a Ferrante di Sangro. Questi morì indebitato e “ad istanza dei creditori” i suoi beni furono venduti all’asta. Bernardino Turbolo se li aggiudicò “ad extintum candelae” per 54.042 ducati, il 17 ottobre 1571. I Pinto lo comprarono, circa un secolo dopo, da un altro Bernardino Turbolo, al prezzo di 87.747 ducati64. Un buon prezzo, visto che il feudo era stato valutato ben 125.430-76 ducati, dopo una perizia effettata da Onorio Tango il quale fece una minuta descrizione65.

Luigi (Aloysio), figlio di don Emanuele e nipote del capostipite della famiglia Pinto, nato nel 1668, ereditò il feudo di Ischitella quando aveva appena sei anni. Si trasferì nel Castello nel 1691: aveva 25 anni. Lo attesta lo Stato delle anime della Chiesa Matrice66.

Questo registro parrocchiale è prezioso, perchè ci fa conoscere, oltre all’anno preciso dell’insediamento del feudatario portoghese ad Ischitella, il numero ed i nominativi delle persone che erano al suo servizio67. Il Cannarozzi, oltre il Principe, citava due schiavi, mentre in realtà gli abitanti del castello furono dieci nel 1691 e salirono a diciannove l’anno successivo, quando un’altra abitazione risulta occupata dal seguito del Principe68.

Nato nel 1668, Luigi Pinto aveva sposato donna Rosa Caracciolo di Napoli. Da questo matrimonio l’8 luglio 1703 nacque Francesco Emanuele, marchese di San Giuliano, che fu cresimato dall’arcivescovo sipontino Tiberio Mu­scettola. Il padre morì a Ischitella il 22 maggio 1704, alla giovane età di 36 anni; l’atto di morte, trascritto da Ciro Cannarozzi in Biografie ischitellane, è consultabile nel Registro dei morti (anni 1681-1720) di Santa Maria Maggiore. Venne sepolto nella Chiesa del Convento di San Francesco, dove nel 1749 il figlio gli eresse un mo­numento sepolcrale “con ornamento di pietra e mezzo busto”. Il Cannarozzi ricorda che, ai suoi tempi, il suddetto monumento c’era ancora, ma piuttosto deturpato, senza il busto e senza l’originaria iscrizione, sostituita da una più recente.

Oggi è rimasto soltanto lo stemma araldico dei Pinto, quello in pietra con in campo le 5 mezzelune69.

Francesco Emanuele Pinto, mecenate e collezionista

In seguito alla precoce morte del padre, Francesco Emanuele divenne principe d’Ischitella alla tenera età di sei anni70. Egli affermò i suoi diritti feudali a danno della famiglia Ventrella, alla quale avrebbe sottratto “con pre­potenza” i terreni della Costa di Niuzi, che questa famiglia aveva preso in enfiteusi dalla Curia Arcivescovile di Siponto, impiantandovi degli uliveti. Il Principe Pinto rivendicò i suoi diritti sul lago Varano, usurpati dagli abitanti di Carpino ed ottenne dal consigliere Valdetaro l’autorizzazione ad arrestare i pescatori di frodo in quel lago. Contese col Regio Fisco per la “Platea” (diritto di riscossione per i generi che si vendevano in piazza) per lo “Scannagium” (diritto di riscossione sulle carni macellate) e per i diritti feudali sui mulini.

Questo principe fu un vero e proprio mecenate: merita la riconoscenza degli abitanti di Ischitella e di Peschici, in quanto arricchì questi due piccoli centri del Gargano di notevoli palazzi e di opere artistiche di indiscutibile valore. Nel 1714 restaurò l’antico Castello di Ischitella arricchendolo con una facciata monumentale e con finestre elegantissime; vi aggiunse alcune stanze al primo piano ed innalzò il secondo piano.

Francesco Emanuele Pinto possedeva anche il feudo di Peschici. Nel 1735 restaurò il Castello, che ancora oggi è possibile ammirare per la posizione a picco sulla Rupe e per l’imponenza della costruzione71.

Il Principe donò una tela alla cappella di Santa Lucia, l’attuale cappella Libetta o del SS.mo Sacramento della Chiesa Matrice di Sant’Elia Profeta. Essa rappresenta la santa e la figura del committente, probabilmente il suo ritratto72.  Un’epigrafe in marmo, murata nella stessa cap­pella, ricorda che il quadro fu donato nel 1736.

A Peschici, Francesco Emanuele Pinto eresse anche la Torre del Ponte, che marca l’entrata dell’attuale centro storico. Ce lo attesta un docu­mento della Dogana: il cavaliere Dean, ispettore del mar Adriatico, nel 1739 ispezionò una torre denomina­ta “quadra”, sita sopra uno scoglio sulla spiaggia di Peschici. Questa fortificazione, custodita da un “torriero”, e definita dai testimoni per la determina dell’apprezzo, “cadente e instabile per la sua vecchiaija e scosse di terremoti”, era ormai inservibile all’uso: per questo motivo Dean spostò le sentinelle in una nuova torre di proprietà dei Pinto, denominata “torre nuova”, oggi Torre del Ponte. Era ubicata sopra la Porta della città e comunicava a destra con la torre di Calalunga, verso Vie­ste, e a sinistra, verso Rodi, con la torre di Montepucci. La particolare posizione strategica permetteva il pas­saparola con l’interno, mentre segnali visivi a base di fuochi facilitavano la comunicazione con le torri vicine. Il principe Emanuele Pinto chiese ed ottenne, in cambio della cessione al Regio Demanio di questa “torre nuova”, il sito della fortificazione più vecchia con tutto il suo “pietrame”73, e che provvide a restaurare. Torre indicata nello Stato delle anime del 1792 come Torre di Quadranova74. Durante il suo “governo”, favorì lo sviluppo dell’agricoltura e nel 1765 costruì una piscina nella zona denominata La Tribuna, coltivò gli aranceti e impiantò degli uliveti al posto delle preesistenti vigne75.

Un giardino, da lui allestito quando era proprietario dell’attuale Palazzo Pagano di Quadrelle (Avellino), è oggi uno dei più importanti beni archeologico-ambientali dell’Italia meridionale76. Anche il palazzo assunse l’attuale conformazione architettonica nella prima metà del 1700, all’epoca dei lavori di trasformazione voluti da Francesco Emanuele Pinto, Principe di Ischitella. Nel 1773 le proprietà, vendute alla famiglia Pagano che le possiede ancora oggi77, comprendevano oltre all’immenso giardino la casa palaziata, costruita sui resti dell’antica torre normanna ed il Palazzo. L’antico possedimento ecclesiastico era stato trasformato in residenza padronale, mentre l’impianto tardo rinascimentale del giardino aveva subito qualche trasformazione, finalizzata al suo abbellimento prima, ed alla parziale riconversione agricola: l’iniziale orto aveva comunque assunto la tipologia di un vero e proprio parco ameno78.

Il Giardino di Palazzo Pagano conserva ancora oggi gli elementi originari voluti dal Principe di Ischitella: la geometria, le fontane, il confine murato e gran parte delle specie botaniche. Ha un’estensione di 3500 mq frazionati in 4 riquadri e in un boschetto sul lato nord. Tre fontane in grotte ed edicole sono collocate in aderenza al muro di fondo; una quarta circolare è all’ incrocio dei due viali mediani. Poggi e sedili punteggiano le prospettive significative dei viali. Gli elementi architettonici sono realizzati con strutture in pietrame calcareo e tufaceo, rivestite di intonaco e piastrelle maiolicate. L’apparato decorativo è ottenuto mediante stucchi, frammenti di schiuma di lava, di alabastro, di corallo, di vetro, di conchiglie, tutti concorrenti a comporre figure e spartiti architettonici. Il patrimonio botanico oggi esistente comprende lecci plurisecolari accanto a bossi, mirti, lauri, pervinche, palme e vari alberi da frutta. Gli impianti idraulici, oggi inattivi, sono presenti e potenzialmente efficienti per alcuni tratti. Il disegno del giardino è caratterizzato da evidentissime variazioni rispetto alla regolare geometria: il recinto muraio e i due viali principali non determinano quattro settori uguali, ma quattro trapezoidi che sembrano “simulare” la prospettiva. Lo studio di questo giardino ha interessato, di recente, esperti a carattere internazionale, dopo la presentazione del progetto pilota di Conservazione del Patrimonio Architettonico Europeo presentato nel 1993.

Francesco Emanuele Pinto fu un vero e proprio esteta. Oltre all’amore per l’arte ed il giardinaggio, egli è ricordato come un raffinato collezionista di presepi. Ne aveva di ogni materiale e disposti in ogni stanza della sua dimora napoletana, che andavano a sommarsi a quello grande. Gli allestimenti, fatti eseguire nel suo palazzo a Chiaia nella prima metà del Settecento, dovettero essere qualcosa “di inusitato” anche per un pubblico avvezzo a questo genere di “sacre figurazioni”, al punto che ancora alla fine del Settecento ne restava memoria. Nel Natale del 1733 ne aveva diretto l’allestimento proprio il citato architetto Desiderio de Bonis, un artista oggi quasi sconosciuto, ma che fu il più quotato “specialista” del genere. La più autorevole delle fonti antiche sulla storia del presepe, Pietro Napoli Signorelli, alla fine del Settecento lamenta la progressiva dispersione e gli smembramenti già in atto delle collezioni presepiali napoletane antiche, tra cui quella un tempo appartenente ai Pinto: “... Sontuoso e magnifico in tutte le sue parti era il presepe che vedevasi in casa del principe d’Ischitella, lodandosi con ispecialità l’eccellenza de’ pastori lavorati dà più celebri scultori e la pompa e la ricchezza indicibile del corteo dei magi e la gloria che componevano un tutto per ogni riguardo eccellente. Ma tutto è terminato nè credo che alcun frammento più sussista di così splendida suppellettile”79.

Nello sterminato inventario (apprezzo) dei beni del Principe, redatto a Napoli pochi giorni dopo la sua morte, nell’ottobre del 1767, compaiono undici presepi di ogni dimensione e materiale, dal legno di bosso intagliato alla cera modellata, dallo stagno dipinto alla terracotta. Ad un certo punto del documento si riporta la seguente notazione: “In tre stanze consecutive è piantato il Presepe grande con tutti i pastori”. Probabilmente era quello composto dalle “figure” acquistate dal principe nel 1743-44 per l’ingente somma di oltre 2.000 ducati80 . Ma la notizia più interessante è che i redattori dell’inventario reperirono in un altro ambiente del palazzo, precisamente “nel camerino dove dormono le Donne detto de’ Pastori”, una serie di oggetti che oggi suscitano grande curiosità. Si trattava di gruppi di figure e di pezzi di scenografie custodite in casse: “una carrozza ricca a due cavalli con un Cardinale dentro, e Vescovi”, “una stanza con moltissimi personaggi in piccolo di creta, che fanno diverse azioni” (forse un bozzetto per un presepe), “un Baroccio a quattro cavalli tinto di verde con un Cavaliere di Malta dentro, “un volantino a due cavalli con due volanti alli lati, e servidori dietro con la livrea di Policastro, e li cavalli sono di capezza di moro”, “un carro con due botti sopra, e due personaggi, e due bovi”, “un milordo a cavallo”. Vi erano inoltre scene che riproducevano “una cella del Monistero di S. Chiara con diversi personaggi, e ornamenti”, la guglia di S. Gennaro di sovero [sughero] colorito”, “un ospitio con diversi personaggi, e sua cappella”, “un monistero di campagna con vari personaggi, e sua cappella” e così via81.

Le cronache della Gazzetta di Napoli citano a più riprese, durante il periodo austriaco (1707-1734), la visita dei Vicerè ai presepi napoletani ed è singolare apprendere che il più celebre presepe in città era proprio quello di Emanuele Pinto, principe di Ischitella. In una cronaca della Gazzetta è riportato che l’ultima Viceregina austriaca “. .. vi andò preceduta da un drappello di guardie tedesche ed accompagnata da alcune dame. Il principe e la principessa d’Ischitella la ricevettero ai piedi della scala ed era con loro anche l’architetto del presepe, Desiderio de Bonis”82.

I pezzi citati nell’inventario del 1767 dovevano far parte, probabilmente, di questo presepe più antico, ideato dal de Bonis, e che non aveva trovato posto in quello montato successivamente nel palazzo dei Pinto.

I presepi allestiti nei palazzi nobiliari di Napoli erano qualcosa di unico. La meraviglia delle scene costruite con ricchezza di particolari, la plasticità dei volti dei pastori, attiravano un pubblico numeroso e di ogni estrazione sociale, suscitando nei visitatori “diletto e meraviglia”. Il tutto con una ricchezza inaudita di sete e stoffe, gioielli, ori ed argenti che dovevano dimostrare lo status socio-economico del nobile casato che allestiva il presepe. Il fatto che il principe di Ischitella fin dal 1765 sia stato costretto ad impegnare i gioielli dei Magi e gli ori delle popolane del suo presepe - e non perché si fossero capovolte le sorti economiche della sua famiglia ma per una momentanea necessità di liquidi - secondo i curatori del sito - denota la natura precaria delle imponenti costruzioni presepiali nate, più che dalla devozione natalizia e da scopi religiosi o mistici, per la funzionale esigenza di consolidare, attraverso l’ostentazione, il prestigio personale raggiunto dalle grandi famiglie napoletane83. Nel corso dell’Ottocento, molti presepi furono progressivamente smembrati e i Perrone, grandi appassionati e competenti (Antonio fu tra i fondatori della letteratura dedicata al presepe), ne acquisteranno i migliori esemplari, una parte dei quali diede vita alla Raccolta Perrone, oggi custodita nel Museo della Certosa di San Martino.

Pasquale Pinto

Emanuele Pinto morì indebitato nel 1767. I suoi creditori sequestrarono il feudo di Peschici e concorsero sul feudo d’Ischitella. Gli successe il figlio Pasquale. Il nuovo Principe si era stabilito ad Ischitella fin dal 1757 e gli abitanti lo avevano accolto con molta deferenza, che ben presto si tramutò in aperta ostilità. La causa principale fu il contrasto sulla particolare “riscossione” delle tasse: per catasto o a battaglione. La prima modalità era proporzionata ai beni dei singoli; la seconda era stabilita ad arbitrio dei governanti. Accadde che otto o dieci ricchi proprietari che dominavano l’Università, nell’assegnare le quote delle imposte, “sgravarono se stessi e aggravarono gli altri”. In particolare, fu Pasquale Pinto, che avrebbe dovuto pagare più di tutti, che avversò il “catasto”, imponendo l’arbitraria riscossione a “battaglione”. Ci fu, a questo punto, una vera e propria rivolta popolare, ed il feudatario ricorse alle maniere forti costringendo il sindaco, che si era posto a capo dei rivoltosi, a dimettersi.

L’Università di Ischitella intentò parecchie cause civili contro Pasquale Pinto, ma puntualmente le perse. Il principe era aduso a metodi prepotenti, gli stessi che adoperò quando tentò di usurpare gli antichi diritti del clero del Capitolo di Santa Maria Maggiore84.

Alla fine del Settecento, le condizioni socio-economiche dei piccoli centri garganici erano complessivamente precarie: il territorio da seminare era così scarso che spesso la popolazione ricorreva all’espediente di bruciare i boschi nelle vicinanze dell’abitato, con l’intento di ricavarne superfici adatte alla coltivazione. Venne pub­blicato, nel 1791, un Real Rescritto per le Terre di Peschici e di Ischitella, che vietava la semina dei terreni un tempo ricoperti di alberi. Ciò con l’evidente scopo di evitare eventuali frane e smottamenti, ma anche per scoraggiare un ulteriore depauperamento del patrimonio boschivo. Il principe di Ischitel­la e Peschici, tutelando i propri interessi in quanto proprietario di vaste zone, e facendosi opportunisticamente portavoce della popola­zione priva dei pochi mezzi di sosten­tamento, presentò una supplica al re: chiese di poter conti­nuare a seminare almeno quei terreni che, pur essendo stati boscosi nel passato, erano coltivati da molti anni. Dopo le perizie, il Supremo Consiglio delle Reali Finanze si pro­nunciò il 29 novembre 1791 a favore della semina nei terreni già coltivati prima del divieto, purché fossero in zona piana e non montuosa85.

Nel 1823, alla morte di Pasquale Pinto, il titolo di principi di Ischitella passò al suo unico figlio Francesco, nato nel 1788. Egli fu un importante personaggio dell’Ottocento napoletano. Servì ben quattro sovrani, due francesi e due borbonici, ma è soprattutto ricordato per la parte che ebbe durante gli ultimi anni del Regno delle Due Sicilie. Fu eroico ufficiale dell’esercito murattiano e partecipò anche alla campagna di Russia nel 1812. Dimesso dall’esercito al rientro dei Borbone, si dedicò alle sue proprietà bonificandone anche vaste zone paludose. Nel 1848 fu ministro di guerra e marina di re Ferdinando II e, infine, consigliere di Francesco II, ultimo re di Napoli, del quale si dichiarò sempre fedele.

Il Cannarozzi nel suo saggio: Francesco Pinto, principe di Ischitella86, lo ricorda così così: “Tra il 1848 e il 1860 il nome di Ischitella corse per l’Italia e per l’Europa perché così si faceva chiamare e così si firmava il ministro di Ferdinando II che ricoprì un ruolo di primo piano negli ultimi anni del regno delle Due Sicilie”. Il suo operato, comunque, è stato valutato molto criticamente dalla storiografia coeva ed attuale. Il Principe, che si firmava con il nome Ischitella, col suo difficile carattere, contribuì non poco ad alimentare la confusione che caratterizzò gli ultimi mesi, prima della dissoluzione, dell’antico reame di Napoli87.

Nel 1860, alla caduta dei Borbone e al conseguente arrivo di Garibaldi, si trasferì in volontario esilio a Parigi e rientrò a Napoli poco prima di morire, quasi novantenne, nel 1875.

La regolamentazione della pesca nel Lago di Varano

Come si augurava Michelangelo Manicone, il sistema feudale venne fortemente scardinato proprio nel decennio francese, non senza una costante lotta tra gli abitanti di Ischitella e gli “illustri possessori” dei luoghi.

L’economia e la sopravvivenza della popolazione dipendevano anche dalla pesca, in primis nel lago di Varano. Le paludi furono suddivise in varie zone ed i diritti assegnati ai paesi che vi gravitavano intorno88. I limiti delle assegnazioni risalgono all’Ordinanza del Commissario del Re, Biase Zurlo, del Dicembre 1810, che stabiliva per il Comune d’Ischitella, come per quelli di Cagnano e di Carpino, le postazioni di pesca lungo i bordi della foce del lago di Varano. Stabilita la confinazione tra il lago suddetto di proprietà de’Principi di Tarsia, dei Principi d’Ischitella e i “fondi” del Comune, in riferimento alla Foce del Lago denominata “Fiume”, fu deciso che ai suddetti Principi dovesse appartenere la zona denominata “Corrente”. All’interno della stessa fu però loro vietato “di mettere il minimo riparo” oltre alle sei Grisciole già esistenti.

“Alla Comune” di Ischitella furono assegnate invece tutte le paglie laterali, all’uno e all’altro bordo del fiume suddetto, chiamate anche mesole. Il nome “mesola” deriva dal latino “media insula”: significa “mezza isola”. E’un cordone dunoso affiorante lungo le rive della foce. Qui i concessionari avevano il dritto di impiantare nuove grisciole, ed in conseguenza di aprirvi i canali necessari, svellendo le mesole, ossia le terre fangose, ed il “paglione”. Senza la suddetta operazione era impossibile costruire una grisciola: i censuari quindi potevano scavarvi, e rendere pescabili le mesole con la costruzione di nuove grisciole.

Agli abitanti di Ischitella era vietato di effettuare la pesca nelle acque del Varano, potevano solo sfruttare postazionI.trappola sulle sponde, come le fratte oppure le grisciole costruite sulle mesole. Tali determinazioni limitanti non rappresentarono affatto una soluzione definitiva accettata dagli interessati. Varie furono infatti le contestazioni prodotte dalle parti in causa, le richieste di rideterminazione e di modifica ai nuovi criteri in vigore.

I Principi di Tarsia e di Ischitella, che in varie occasioni, e senza successo, si erano opposti alla suddetta Ordinanza, quando le competenze passarono dal Commissario del Re all’Intendenza della Provincia di Capitanata, non persero un momento di tempo: presentarono un esposto, sostenendo presunte “trasgressioni da parte dei concessionarj” e chiedendo che un Consigliere d’Intendenza si recasse sul luogo per rettificare ogni cosa.

L’incarico venne affidato al Consigliere Mosca, il quale operò delle rettifiche a favore dei Principi. Lo si deduce da una petizione inoltrata nel 1813 dai cittadini concessionari al Consigliere di Stato presso il Ministero degli Interni a Napoli:

“ Tutto è cambiato, Signore -lamentano i pescatorI. Mosca ha diroccato l’edifizio (ordinanza) esistente. Li miglioramenti fatti sono stati devastati colla forza armata; svelte la grisciole; interdetta ogni facoltà di espandere la pesca nel proprio sito, siamo stati finanche obbligati a rimettere le mesole ch’erano state scavate. Così in luogo della sussistenza, e ricchezza, le famiglie hanno al presente ritrovata la miseria, perché in un punto si è perduta tutta la spesa, in vece di averne un compenso”.

Gli abitanti di Ischitella si sentivano vittime di congiure da parte dei “potenti”. Denunciavano infatti:

– la mancata presa di posizione del primo cittadino sulla questione: “Il Sindaco di questa Comune è stato nella forma chiamato a sostenere li dritti della medesima, gnuna parte però ha voluto prenderci”

–  di non essere stati sentiti dal Consigliere “prima di dar fuori la sua providenza”, cioè prima che emanasse la sua ordinanza di rettifica;

–  la collusione del Consigliere d’Intendenza Francesco Mosca con gli illustri Possessori. Questi “si è renduto legalmente sospetto, perché tirò direttamente ad alloggiare presso l’Agente del Principe d’Ischitella, ed in di lui casa è stato durante tutto il disimpegno, in compagnia degli Avvocati del detto Principe, e di quello di Tarsia”;

–  il suddetto Consigliere Mosca non ha voluto avvalersi dei Periti dei quali si servirono il Commissario del Re Zurlo e l’Agente Divisore. E due dei tre nuovi Periti designati non erano nella condizione ideale di indipendenza rispetto alle parti in causa: “portavano seco loro la sospezione, giacchè uno cioè Michele Lucatelli di Vico è debitore al detto Agente, da cui voleva la dilazione al pagamento, e l’altro cioè Francesco Montanaro come antico affittatore del Lago è stato sempre in questione colla Comune”;

–  Infine, tutti i detti Periti sono notoriamente “ignoranti” della materia, e del modo di pescare nel fiume. Valga per esempio la regola da essi stabilita che “tutti debbono finire la costruzione delle grisciole pel primo di Giugno in ciascun anno”. Questo è un termine molto anteriore “al tempo in cui principia la pesca, dal che ne avviene, che le dette grisciole nel maggior bisogno si trovano indebolite, ed intasate”. Difatti la prima pesca dei cefali si effettua dalle grisciole vicino alla Torretta nel mese di Luglio ed Agosto: “queste grisciole, dunque si debbono costruire tutte insieme per la fine di giugno. Le altre grisciole situate alla Torre non incominciano a pescare alla fine di Settembre, tempo in cui si fa la chiusa del pesce bianco; e per ciò si debbono trovare costruite per tutto Luglio”.

In considerazione di tutto ciò, i supplicanti “si sono legalmente protestati, quante volte le cose avessero a rimanere così, tanto per l’indennità delle spese onde ridurre li siti nuovi, quanto affinché il canone sia defalcato dall’aumento datogli a motivo de’miglioramenti loro permessi, maggiormente perché si avvicina la stagione per la riattazione degli ordigni e per la nuova pesca”. Chiedono, in pratica, la riduzione del canone in proporzione ai “tagli” operati sui loro diritti di pesca.

Con una lettera all’Intendente di Capitanata, i concessionari denunciarono anche un altro grave abuso: quello perpetrato dal primo Eletto (sindaco) riguardo alle modalità di pesca alla tinca. L’usanza di mettere reti di tinche in qualunque tempo, ed in ogni luogo del Lago, e specialmente nella parte superiore, dove al di sotto vi sono le dette paludi assegnate ai cittadini, era stata vietata “per la ragione che con le reti si verrebbero così ad inutilizzare li detti locali sottoposti, intercettando il libro passaggio al pesce formando sott’acqua colle dette reti un ostacolo tale che non è possibile che il pesce possa passare, se non quello minutissimo”.

Per ciascun contravventore era prevista una multa di lire 10 a beneficio del Regal Tesoro, lasciando l’esecuzione di dette disposizioni al primo eletto, il Signor Fisico Agostino Ventrella. Ma costui, invece di far rispettare la legge, era stato il primo a contravvenirla: “Quale effetto ebbero, Signori, questi Disposizioni, gnuna al certo, mentre che il detto primo Eletto Signor Ventrella, invece di eseguire detti ordini, ha egli il primo fatto mettere delle rete di Tinche nel Lago, chiamando anche là pescatori forastieri, e propriamente di Cagnano, avendo li medesimi portato seco molti sandali, ed infinite reti, pescando con questi alla società, tenendoli sotto la sua protezione, ed abbusandosi così dell’incarico datogli dal Signor Mosca”.

“Eccellenza -denunciavano ancora i pescatorI. in tempo che si vanno a mettere le dette reti sott’acqua, pria che tramonta il sole, in ogni giorno, voi vedete una flotta Navale tanto è la molteplicità de’sandali. Resta una porzione del Lago, dove sono sottoposto le dette paludi demaniali, tutto chiuso, senza esservi speranza che i poveri concessionarj delle dette paludi possono prendere alcun pescato”.

I supplicanti chiedevano giustizia all’Intendente di Capitanata: “L’Eccellenza sua colla profonda dottrina potrà calcolare quanto sia punibile la condotta del signor Primo Eletto. Tanto la supplicano, e l’avranno come da Dio”.

Il documento fu sottoscritto a firma di Vincenzo, Tomaso Agricola e Zejnè Iacovino. E dai “segni di croce” di Vincenzo di Marco Maiorano, Gioacchino d’Amico e Gaetano d’Errico.

 

La Chiesa di San Michele, oggi Sant’Eustachio

La cappella privata dei principi Pinto fu la chiesa sotto il titolo di San Michele, oggi denominata Chiesa di Sant’Eustachio. Ubicata al centro dell’abitato di Ischitella, sul retro del Palazzo, fin dai primi del Settecento fu “sempre riconosciuta di allodio” dell’illustre Casa Pinto cui apparteneva il feudo di Ischitella. Luigi Pinto Capece Bozzuto aveva proibito a don Michele D’Avolio, che aveva iniziato la costruzione della chiesa fin dalla fine del ‘600, di portarla a termine. Praticamente la requisì, con la promessa di pagare le somme già spese dal canonico89.  Il Principe voleva servirsene come cappella privata del suo palazzo; è sua la campana fusa da Domenico Astarita nel 1700, che porta impresso lo stemma nobiliare dei Pinto90.

Ad ultimare la costruzione della chiesa e a provvedere agli arredi, arricchendola di pregevoli dipinti ci pensò Francesco Emanuele. Le tele di Gennaro Abbate, commissionate dal principe, rappresentano una Deposizione dalla Croce; Gesù Bambino con Sant’Antonio, San Nicola, San Francesco di Paola, San Francesco d’Assisi e Sant’Antonio Abate.

A completare l’arredo iconografico della Chiesa di San Michele pensò Alfonso Pinto91, devotissimo di San Gennaro che donò una tela rappresentante il Santo prediletto, la Madonna del Carmine e la Sacra Famiglia. Lo stesso principe donò altresì una Natività di Cristo e una Crocifissione alla Chiesa del Convento di San Francesco.

Nel 1784, Pasquale Pinto, dopo un contenzioso con il capitolo di Santa Maria Maggiore92,   ottenne dall’arcivescovo Francone la facoltà di istituire uno speciale Collegium Cappellanorum. A capo di questo capitolo, venne nominato Don Andrea Santamaria di Rodi Garganico. Il Principe stipendiò, a proprie spese, ben sette cappellani, che esercitavano le regolari funzioni religiose officiate in tutte le chiese della diocesi sipontina. In cambio di 72 ducati all’anno, corrisposti a ognuno di loro dall’Illustre Possessore, che li aveva scelti tra le famiglie borghesi di Ischitella, essi erano tenuti a recitare tutti insieme l’Ufficio Divino; celebravano messa nei giorni feriali ed una messa cantata in quelli festivi. Durante le funzioni interne ed esterne, indossavano la mozzetta cinerina: era un privilegio concesso dall’arcivescovo Francone.

La chiesa era “ben servita” e richiamava la frequenza del popolo per l’esercizio regolare del culto. Le vicende dei tempi, seguite all’eversione della feudalità dopo il decreto Zurlo, non permisero alla predetta Casa Pinto di pagare gli onorari dovuti ai cappellani. E costoro non si sentirono più in obbligo di rispettare il loro impegno. La chiesa “materiale e formale” fu così abbandonata, ed il popolo restò “defraudato” dalle normali funzioni ecclesiastiche che un tempo vi si eseguivano con regolarità e solennità. A ciò, si aggiunse il pubblico dispiacere di vedere, di anno in anno, deteriorato un tempio di architettura d’ordine toscano dell’ampiezza di palmi quadrati 2142, e ormai ridotto “quasi a stalla”.

A causa di questa “deplorevole situazione”, a molti buoni cittadini venne il desiderio non solo “di ristorare e fare delle riparazioni a questo sacro edificio”, ma anche di proporre al comune di Ischitella di acquistare la chiesa di San Michele, trasferendo dalla vecchia chiesa di Sant’Eustachio93 l’altare e la statua dell’omonimo protettore principale della città, la cui festa era celebrata “con nota pompa” e grande partecipazione da parte di tutti i fedeli.

Questo lodevole desiderio non potè essere realizzato per mancanza di mezzi, che le circostanze de’tempi non offrivano, finchè alcuni “generosi proprietari” pensarono di “santificare a quest’opera” alcuni crediti che dovevano essere devoluti loro dal comune di Ischitella. Inviarono una supplica al Sindaco il quale, in data 11 luglio 1836, ne fece rapporto al Sottointendente, comunicando che ci sarebbe stata una grande soddisfazione pubblica, se superiormente si fosse consentito di realizzare quanto i proprietari suddetti desideravano.

Il 4 agosto giunse una nota dal Sottintendente del Distretto di San Severo, la n. 6796. In conseguenza della petizione, autorizzava il Decurionato ad esaminare gli estremi dell’acquisto proposto, per esprimere un parere in merito all’acquisto della chiesa di San Michele da parte del comune di Ischitella. Il 14 agosto milleottocentotrentasei, sotto la presidenza del sindaco D. Pietrantonio Miraglia, il Decurionato del comune di Ischitella si riunì e deliberò quanto segue: riconoscendo vero il credito di quei proprietari in ducati 313 impiegati al ripiano del dazio sul macino per il 1827, visto l’assiso del Consiglio d’Intendenza del 1° Dicembre 1827 che autorizzava i creditori ad avere rimborso di detta somma; uditi gli stessi creditori, i quali intervenuti nella riunione ratificarono in tutta l’estensione la memoria diretta al Sindaco in data 10 luglio dell’anno corrente che fu loro letta, trovò utilissimo l’acquisto in parola. Visto che la chiesa sacra a Sant’Eustachio, posta in un luogo periferico dell’abitato di Ischitella era “angusta, umida e rovinosa”; visto che la famiglia Pinto era disposta ad alienare la chiesa di San Michele, il Decurionato: “è d’avviso che il progetto progredisca nel modo regolare e s’implorino le superiori autorizzazioni affinché la Chiesa di S. Michele colle somme enunciate si acquisti, si riduca al primiero stato, e vi si trasferisca l’altare e statua del principale Protettore S. Eustachio; ben inteso che la manutenzione di detta Chiesa sia a carico del Comune nell’istesso modo come fin’ora si è praticato per la Chiesa di S. Eustachio”.

La vicenda della cessione della loro chiesa privata è emblematica del definitivo tramonto del prestigio dei Principi Pinto ad Ischitella.

L’incendio di Palazzo Pinto

Oggi ad Ischitella la traccia più evidente del principato dei Pinto è il Palazzo Ventrella. Sito nel piano, alla sommità di un alto colle, era stato edificato nel 1714 sui ruderi di un antico castello, crollato al suolo in seguito al “furibondo tremuoto” del 1640. Il palazzo Pinto, anche se incompiuto (doveva avere quattro piani), secondo Michelangelo Manicone era “il più bello e magnifico edificio del Monte Gargano. E a suo giudizio, gli edifici94 sono stati, e saranno sempre, corrispondenti alla “elevatezza” di coloro che li fecero e li fanno edificare.  Nonostante le critiche precedenti, onore ai Pinto, dunque!

La sua accurata descrizione ci permette di visualizzare com’era il palazzo: un perfetto rettangolo, con un unico cortile della stessa forma geometrica, due scalinate di accesso, una ad Est, l’altra ad Ovest, ambedue comode, larghe, belle. Delle quattro facciate quella verso il Nord è la principale. Essa è antica, bella, graziosa; ha un portale sontuosamente arricchito di ornamenti delicati. Il portone è decorato da una log­gia ben lunga, sontuosa, leggiadra. Il palazzo è “comodo” ed ha tre piani: quello terreno ospita i “familiari di servizio”; sugli altri due sono gli appartamenti della famiglia del Principe”95. 

Sempre ne La Fisica Appula, Michelangelo Manicone ci fa rivivere i momenti convulsi del terribile incendio che, nella notte del 20 aprile 1804, “divorò” il palazzo dei Pinto: le fiamme, altissime, cominciarono ad alzarsi dal terzo piano: “Sembra questo una fornace accesa. Dalle finestre abbrustite sbucano inquiete fiamme stridenti, fino al cielo. Lo spavento dilaga tra tutti gli abitanti. Ogni casa echeggia di disperati urli. Scrosciano i saldi tetti, cadono con immenso fracasso sui lastricati; e le soffitte del secondo piano crollano, e divengon pascolo delle fiamme divoratrici. Il palazzo arso e divorato al di dentro, vomita al di fuori un fuoco spaventevole. Temono gl’Ischitellani, che le fiamme portino l’incendio, la strage, e la desolazione nelle case vicine, e quindi in tutto il Paese. Ai pianti di tutti si commuove il zelante Ar­ciprete Domenico Montanaro, il quale accorre in Chiesa, espone il Santissimo Sagramento dell’Altare, e lo conduce in processione sulla piazza della facciata principale, accompagnato dalle lagrime di tutti. Fa la santa benedizione. Oh miracolo grande! Ormai lo Scirocco minacciava di portar l’incendio nel paese, e di ridurlo al nulla, quando, destasi un vento da ponente; le fiamme vengon quindi trasportate verso levante, così il fuoco non s’appiglia alle case, Ischitella non è ridotto ad un mucchio di sassi, ed il palazzo arso al di dentro, e divenuto inabitabile ne’piani superiori, offre alla vista finestre annerate, solitudine mesta, rovine luttuose”96. 

Il fuoco era partito da una trave, posta all’interno di un camino del secondo piano: il massaro del Principe stava bruciando nel focolare delle “fiscelle di cacio”; le faville avevano attaccato la trave e l’incendio si era propagato nel corrispondente soffitto97 .

Michelangelo Manicone racconta un gustoso aneddoto, relativo all’incendio:

Il Palazzo Pinto “orrendamente avvampava”, e Don Rinaldo Netti della Padula, Agente del Principe, “placidamente” dormiva. Molta gente, accorsa nell’appartamento del secondo piano, entrò nella sua camera, gridando: “Signor Agente, fuggi, scappa”. Rinaldo, svegliatosi di soprassalto a queste voci, credendo fossero i ladri, li pregò di non ucciderlo, e di prendersi i denari. “Che denari, e denari - gli risposero- presto, fuggi, se non vuoi esser divorato dalle fiamme”. Ciò udendo Rinaldo si confuse, restò senza voce, e quasi senza respiro. Lo stato confusionale dell’Agente del Principe suscitò compassione in ogni cuore; egli fu sollecitamente trasportato nella vicina casa de’benefici Signori Ventrella, e si salvò.

Secondo Manicone, il “tenero e virtuoso” Don Rinaldo, suo grande amico, deve la salvezza della propria vita agli “umani” Ischitellani; il salvataggio del denaro, delle interessanti scritture del Principe, e della sua “roba” lo deve, invece, al coraggio di un’intraprendente donzella: Fiorenza di Lella, sua fedelissima servetta. Svegliata di soprassalto, nella sua casa, dalle grida del popolo, quando sentì che il Palazzo Pinto s’incendiava, si mise subito camicia, gonnella, e corpettino e “volò” lì. Giunta al portone, sollecitò tutti a salvare “la roba”. Quindi, “accompagnata da molte persone, senza temere né fuoco, né crollanti soffitti, entrò impavidamente nella camera del suo padrone, prese il baule, le carte, la roba; salvò tutto, facendo trasportare tutte le cose recuperate a casa sua. Detto fatto, raggiunse il suo padrone. Questi vedendola, le chiese:

“Fiorenza, che sarà del baule, in cui eravi il denaro del Principe?”.

–  E’in casa mia - rispose Fiorenza.

–  E delle carte che n’è?

–  Sono pure in casa mia.

–  E quel denaro, che stava nel tiratojo di quel tavolino?

–  L’ho in petto.

–  E l’orologio mio?

–  L’ho in saccoccia.

A tali parole Rinaldo si rincuorò, benedisse il Cielo, e ringraziò Fiorenza. Per Michelangelo Manicone, questa intraprendente donzella ischitellana, che diede prova di tanto coraggio, fu una vera e propria eroina, onore del gentil sesso. Da meritare, senza ombra di dubbio, un posto “distinto” nelle Novelle Morali del Soave98.

L’immortalità gliel’ha invece conferita proprio lui, l’umile fraticello illuminista di Vico del Gargano, inserendo l’episodio nel suo indiscusso capolavoro: la sorprendente, eclettica Fisica Appula.

DOCUMENTO INEDITO

F. E. MONTECCO, Notizie di alcune famiglie popolari della città e regno di Napoli divenute, per ricchezza e dignità, ragguardevoli, manoscritto del 1693 conservato presso la Biblioteca della Società di Storia Patria napoletana.

Della Famiglia Freitas Pinto al presente Pinto y Mendozza

Questa famiglia che il presente per le ricchezze titoli, cariche e nobili Parentadi indiani (?), che fà molta figura in Napoli, è Portuese (Portoghese) di origine, popolare di conditione, e sono anche alcuni di opinione, che sia di setta Giudaica, quale setta è molto fertile in quel Regnio, siccome habimo veduto in molte di queste famiglie venute qui che in palese mostrandosi esser condici (di condizione) Christiani in segreto poi osseruono (osservano) con molta puntualità il rito Giudaico, del che accusati ne furono ha nostri tempi condagniamente castigate.

Il Personaggio di questa famiglia che dà Portogallo trapiantò la sua casa in Napoli fù D. Luise Freitas conosciuto dà noi, e da altri uecchi (vecchi) della nostra Città, insignito coll’abito di Auis (Avis) della sua nazione solito (a) darsi anche à personaggi ignobili simile nelle fattezze, et nel colore al nobilissimo d’Alcantara.

Trapiantò anche in Napoli Don Loise le sue pinguissime ricchezze guadagniate dà lui, e dà suoi maggiori col esercizio della mercanzia colle quali fece in essa un Stabile Piedistallo. La sua Casa hebbe collui (con lui) due figliuoli di qualche apparenza li quali essendo entrati nell’età delli adolescenza spacciavano dà per tutto nobiltà, e cavalleria, non mancandoli per le loro ricchezze personaggi nobili della città che cortegiandoli, et accompagnandoli l’adulauano (li adulavano).

Il primo di essi si chiamò Don Emanuele e Don Casparro il secondo, a questi Don Luise loro Padre uolendo (volendo) dar principio alla nobiltà della Casa procurò di accoppiarli a nobile Donne in Matrimonio, come in effetto fece, poiché Don Emanuele sposò Donna Geronima Capace Bozzuto figlia di Don Fabrizio del Seggio di Capuana di Napoli, Primario de’Taulario (Tabulario) del S.R.C., e di Donna Teresa Griffo del Seggio di Porto, et indi appresso Don Gasparre prese per moglie Donna Angiola Legni del medesimo Seggio, ambedue quanto ricche di bellezza corporale, e di nobiltà altrettanto pouere (povere) di beni di fortuna. Goudè (Godè) per pochi anni Don Luise la compagnia di queste Nuore, e vide propagata la sua famiglia con dei Nipoti, mà istesso pervenuto all’età decrepita finì di uiuere (vivere) in questo Mondo lasciando l’infinite sue ricchezze a’figliuoli, e migliorando la condizione del primogenito di centomila ducati di più della sua porzione; fù sepolto il suo Cadavere nella Chiesa di Santo Spirito de P.P. Predicatori incontro al Regio Palazzo nella seconda Cappella à man sinistra nell’entrar della Chiesa per la porta maggiore oue tra l’altro si legge una lunga iscrittione (iscrizione) la quale si tralascia per brevità potendola ogn’un uedere (vedere).

E tal memorie, et iscrittioni sa bene ogn’uno non solo di mediocre, mà di poco intendimento, che si fanno specciose, e magnifiche piene di bugiarde uanità (vanità), per far credere agl’Ignoranti quel che mai fù siccome è questa inguine all’origine della famiglia, e gl’antichi innuentati (inventati) personaggi, et alle cariche militari esercitate.

E qui sa auertire (avvertire) una nobil curiosità, et è che quando s’intaglio la detta iscrittione, haueuano (avevano) fatto ponere nella (porre sulla) persona di Don Luise l’habito di Alcantara in luogo di quello d’Auis (Avis), del che essendosi accorti i Cavalieri di quell’ordine nobilissimo, ne fecero un sì gran rumore che fù di bisognio alli eredi di quello farlo toglier via, e ponerui (porvi) l’altro d’Auis (Avis), e ciò è notorio per non esser fatto molto antico.

Don Emanuele Primogenito di Don Loise essendo stato fatto come si è detto assai miglior di conditione del altro fratello dal Padre, fe’compra della Terra di Ischitella nella provincia di Capitanata, sopra della quale ottenne titolo di Prencipe, e ciò oltre di magnifiche possessioni, e beni stabili fe’anco compra del decoroso, e lucroso officio di Scrivano di Ratione caduto (ceduto) alla Regia Corte per la morte di Don Andrea Concuoletto, Marchese d’Arena, con la quale Carica chè ua congionta (va unita) a quella di Consigliere di Stato e con specioso titolo di Prencipe diuenne (divenne) personaggio e di molta stima, e rispetto, per lo chè colle ricchezze che maggiormente l’appianarono la strada potè esser decorato per mercede hautane (avutane) da Sua Mestà dell’abito nobilissimo de’Caualieri (Cavalieri) di Colatraua.

Prese per moglie, come vi dissi di sopra senza dote alcuna per l’inegualità della conditione, Donna Geronima Capece Bozzuto del Seggio di Capuano colla suddetta moglie procreò più figliuoli così dell’uno come dell’altro sesso, de questi lascio essendo morti (quelli che sono morti ) prima degli altri, vivono il po.nte Don Luise che come primogenito per la morte seguita di detto suo Padre, ed il secondo che tiene l’officio di Scriuano (Scrivano) di Ratione, et il terzo detto Don Antonio, et il quarto Fortunato maschi, e due Femine, una delle quali chiamata Donna Teresa è maritata con buona dote al Marchese di Brienza don Giuseppe Caracciolo, e l’altra fatta Monacha nel monastero di San Sebastiano. La Bozzuta loro Madre viue (vive) in un’istessa casa colli detti figlioli, e dicono le male lingue de sfaccendati che malamente parlano de’fatti altrui che poco serba il decoro della sua honesta (onestà); et hauendo accumulato col defonto (defunto) Marito peculio di consideratione ultimamente nell’anno 1694 è passata alle seconde nozze con Don Fabio de Dura, al quale per detto affetto hauea (aveva) ella procurata la grazia della scarcerazione.

Don Gaspare secondogenito viue (vive) anche con splendore, et esercita l’officio di Generale Tesoriero del Regno, con il quale altresì uà (va) annesso quello di Consegliero di Stato. Prese per moglie Donna Angiola Lagni del Seggio di Captano, figlia del Marchese Romagno senza dote alcuna per la medesima cagione icennata in Don Emanuele suo fratello, e con essa s’è fatto Padre di tre figliuoli Maschi che sono Don Luise, Don Gregorio, e Don Antonio, tutti di buon’indole, et una femina detta Donna Catarina che fù maritata con ricca dote l’anno 1693 a Don Antonio Mont’Alto, Duca di Fragnito, col disgusto d’alcuni de parenti dello sposo, e particolarmente del Duca di Picodefumo di Casa Filomarino suo cognato che non uolle (volle) intervenire in modo alcuno alle nozze, però non godè molto della compagnia maritale, perché doppo due mesi ò poco più del contratto sponsalitio è rimasta di questo Vedua (vedova), è grauida (gravida), et à suo tempo poi diede alla luce un maschio al quale fu posto il nome del Padre.

Indi essendo per la sua dote desiderata in moglie dà diversi personaggi finalmente fù conchiuso Matrimonio con Mario Loffredo Marchese di Monteforte figlio primogenito del Principe di Cardito, il quale stando in Roma come Agente della Città di Napoli per la causa dell’inquisizione, è venuto à tal’effetto qui per le poste; et essendo salito più di una volta alla Casa della sposa, hà fatto ritorno in Roma come Agente della Città di Napoli per spedirsi dalla sua Carica, et ottenne dal Sommo Pontefice la dispensa del Matrimonio, essendo cogino del defunto Duca di Fragnito, Primo sposo della Dama; come già ottenuto la dispensa hà effettuato il Matrimonio; te il Prencipe di Cardito Padre dello sposo è passato all’altra vita in quest’anno 1705, essendo succeduto detto Marchese nel Principato al Padre.

 

 

 

Immagini :

 

Peschici vista da Montepucci

Castello di Peschici

Castello di Peschici visto dal mare

Interni ed esterno del castello dei Principi Pinto a Peschici : n.1, n.2, n.3

Peschici, la Torre del Ponte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE

 

 

1 L.GIUSTINIANI, Dizionario storico-geografico, tomo VII, Napoli 1804, pp. 160-163.

 2 L. GIUSTINIANI, Dizionario storico-geografico, tomo VII, Napoli 1804, pp. 160-163.

 3 M. MANICONE, La Fisica Appula, Napoli, 1806-1807, voll.5, p.537.

 4Ivi.

 5Ivi. Le Foci di Varano e di Capoiale, che resero le acque salmastre, vennero aperte successivamente.

 6 M.MANICONE, La Fisica Appula, Napoli, 1806-1807, voll.5, pag. 539.

 7 Ivi, pp. 540-542.

 8 Ivi, pag. 547.

 9 Ivi. pp. 547-548.

 10 M.MANICONE, La Fisica Appula, Napoli, 1806-1807, voll.5, pag. 548.

 11 Ivi.

 12 M.MANICONE , La Fisica Appula, Napoli, 1806-1807, voll.5, pag. 548.

 13ARCHIVIO DI STATO LUCERA, Capitolato tra l’Università’di Ischitella e i Baroni Turbolo 1593, atti del notaio DE CANDO Gian Tommaso 1559-1609.

 14 Il Cannarozzi riporta che Annibale Turbolo ed il padre volevano togliere agli abitanti del luogoi loro diritti sull’Isola Varano, ma questi ricorsero al S.R.C. ed ottennero una sentenza del 9/2/1576, nella quale si enunciava che “era lecito agli uomini d’Ischitella e all’Università far pascolare abbeverare e pernottare i loro animali, nel territorio dell’Isola”, senza obbligo alcuno di pagamento verso il signore feudale.

 15 Servizi obbligati.

 16 Cfr. R. FILANGIERI DI CANDIDA, . “Storia di Massa Lubrense”, 1^ edizione, Napoli 1910. Nel volume del Filangieri, e precisamente nel capitolo su “Gli uomini e le famiglie notevoli di Massa, ci sono le informazioni sui Turbolo che riportiamo nella nostra nota. Ringraziamo per la segnalazione e l’invio della documentazione in e-mail, l’Archeoclub Massa Lubrense, in particolare Giovanni Visetti e Stefano Ruocco. 

 17 Nel 1681 a pagare l’adoha d’Ischitella è Luigi Pinto Mendoza. Nel 1638 aveva pagato Bernardino Turbolo; nel 1643 Carlo Turbolo; nel 1653 Francesca Turbolo. in A.S.N., Partium Summariae p.177 documento citato da A.VALENTE, in Notizie di storia feudale di una terra garganica: Ischitella, in “Archivio Società Storia Patria”, 1953.

 18 A.S.N., Partium Summariae, 641, 7, f.121, a.1572. Il documento è citato da A. VALENTE, cit..

 19 A. S. N., Registro Quinterniori vol 81 fol.130.

 20 P. LITTA, Famiglie celebri italiane, vol.II fasc. 56 voce Ventrella, Milano1852, 1852.

 21 Nel 1352 ci fu una contesa con Antonio Acciapaccia per il possesso dei suddetti beni: cfr Reg. Ang., vol.357, f. 103, t. in R.FILANGIERI DI CANDIDA, Storia di Massa Lubrense, cit.

 22 A Sorrento c’erano due Seggi: quello di Porta e quello di Dominava.

 23 La notizia che i Turbolo, nel periodo in cui posseggono Ischitella, siano proprietari di un Banco a Napoli è attestata, secondo il ricercatore Giusepppe Laganella, da un documento custodito nell’Archivio di Stato di Foggia, Dogana delle pecore 1417/2-142 con titolo “Gio Lorenzo Cataneo e Gregorio de Mutiis. Vico 1603”.Si parla di un credito di ducati 140 in carlini d’argento, acquisito durante la Fiera di Foggia da parte di un certo Julius Caesar Cataneo nei confronti di Gregorio de Mutiis e Alessandro Fania di Apricena. Questo danaro fu ricevuto dal creditore, come recita il documento, per mezzo del Banco Di Napoli di Turbolo e Caputo. Lo stesso Banco compare in un documento dell’Archivio di Stato di Lucera del Notaio Tranaso Simeone23, 21/1/1603 in Peschici, per accreditare un pagamento di Gio.Battista Turbolo.

 24 Sul sarcofago, posto nella 2a cappella a destra della chiesa vecchia, fu scolpito, in due medaglioni, il suo volto e quello di sua moglie Giovanna Rosa; con la seguente epigrafe: “Berardino Turbolo / multor. oppidor. Domino, viro ex nobili / genere orto, in pietate ac prudentia, claro / in invadisq. pauperib., ac locis piis liberaliss / Ioanna Rosa / coniugi benemerendi p. / an. sal. MDLXXV”. A difesa della sua patria, fece costruire presso la marina del Cantone una torre. Cfr R.FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 25 Nel 1586 istituì un Monte di Pegni, legando al Pio Monte 1050 ducati, con cui fece erigere la Torre dell’Annunziata e dispose che si fondasse nella chiesa di quel casale una cappella per la sua famiglia, che fu quella di S. Matteo; cfr R. FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 26 CAPACCIO, Secretario, L. II, p. 243; Hist. Nap., Lib. II, cap. IV, p. 417 cit da R. FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 27 Ivi.

 28 Ivi.

 29 Biblioteca Certosa di S. Martino: Origine della fondaz. di tutte le Case del S. Ord. Cartusiano ecc., ms. attribuito a G. B. GRANELLI. Erroneamente il TUFARI (ne La Certosa di S. Martino) lo dice Priore nel 1581, in FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 30 TROMBY, Stor. del Patriarca S. Brunone e del suo Orsd. Cartus., Nap. 1779; vol. X, p. 371, 425 e 433. Erra il PERSICO dicendo che fu per 25 anni Priore a Napoli, e per 5, a Pavia (cap. XVI, p. 72). In FILANGIERI DI CANDIDA , cit.

 31 TOPPI, Bibl. Nap., p. 16; PERSICO, cap. XVI, p. 77, sg.; PARRINO, loc. cit., ecc. in FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 32 Questo libro fu pubblicato nel 1622; cfr. TOPPI, loc. cit.; Arch. Stor. Nap., A. V., p. 738. in FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 33 CANZANO, Nob. sorr, p. 86, sg.; cfr. FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 34 RECCHO, Not. di fam. nob., p. 196; CEVA GRIMALDI, Mem. stor.di Nap., p. 466; in FILANGIERI DI CANDIDA , cit; CANDIDA, Op. cit., vol. VI, pag. 184; in FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 35 in FILANGIERI DI CANDIDA, cit.

 36 E. MONTECCO, Notizie di alcune famiglie popolari della città e regno di Napoli divenute, per ricchezza e dignità, ragguardevoli, manoscritto del 1693 conservato presso la Biblioteca della Società di Storia Patria di Napoli. Ringrazio il prof. Filippo Fiorentino che mi ha fatto pervenire da Napoli una copia del documento.

 37 E. MONTECCO, cit.; pag. 1. E’singolare questa eco di fatti europei nel documento in esame. Il problema dei falsi convertiti fu tale che, secondo l’autorevole storico Ludwig von Pastor (1854-1928), era stata messa in pericolo l’esistenza stessa della Spagna cristiana. Quando nel 1474 Isabella di Castiglia (1451-1504) salì al trono, la convivenza fra ebrei e cristiani era molto deteriorata. In quella situazione, si erano moltiplicate le richieste, provenienti anche da autorevoli conversos, a favore dell’istituzione dell’Inquisizione. Il 1° novembre 1478 Papa Sisto IV (1471-1484) la istituì in Castiglia, autorizzando i Re Cattolici a nominare alcuni inquisitori di loro fiducia. Nei primi tempi, l’azione del Tribunale fu molto rigorosa, spesso al di fuori di qualsivoglia garantismo per gli accusati. E la Santa Sede dovette intervenire, nominando un Inquisitore Generale, che garantisse la corretta applicazione del codice inquisitorio: scelse il domenicano Tomas de Torquemada (1420-1498), confessore della regina Isabella. Questo personaggio, su cui si sono accaniti gli strali della moderna critica progressista, è stato rivalutato dalla storiografia contemporanea: uomo di costumi integerrimi, grande mecenate e protettore di artisti della sua epoca, Torquemada fu un inquisitore generale relativamente mite e liberale e s’impegnò per ottenere ampie amnistie, come quella del 1484. Lo storico francese Bartolomé Bennassar, confrontando i tribunali inquisitoriali con le corti civili dell’epoca, descrive l’Inquisizione spagnola in questi termini: “Senza alcun dubbio più efficace. Ma anche più esatta, più scrupolosa [...]. Una giustizia che esamina attentamente le testimonianze, che le sottopone a uno scrupoloso controllo, che accetta liberamente la ricusazione da parte degli accusati dei testimoni sospetti (e spesso per i motivi più insignificanti); una giustizia che tortura raramente e che rispetta le norme legali, contrariamente ad alcune giurisdizioni civili [...]. Una giustizia preoccupata di educare, di spiegare all’accusato perché ha errato, che ammonisce e consiglia, le cui condanne a morte colpiscono solo i recidivi”. La giurisdizione dell’Inquisizione verteva infatti esclusivamente sui cristiani battezzati: nessun ebreo fu mai condannato perché tale; furono condannati invece coloro che si fingevano cattolici per ricavarne vantaggi. Quel tribunale, colpendo una percentuale ridotta di conversos e di moriscos, cioè ebrei e musulmani diventati cristiani solo per opportunismo, certificò che tutti gli altri erano veri convertiti. Nessuno aveva il diritto di discriminarli o di attaccarli con la violenza. Si evitò, in tal modo, un probabile “bagno di sangue”. L’Inquisizione, contribuendo alla repressione dell’eresia e sostenendo l’operato della Contro-Riforma, svolse una preziosa azione educativa sul basso clero e il resto della popolazione, confortandone la fede e la morale. Non può essere sottovalutata la portata di tale impresa, che costituì una nazione spiritualmente compatta di fronte alla Francia lacerata dalle guerre di religione, all’Inghilterra sulla strada dell’eresia e al sultano difensore del mondo islamico. Cfr F. Pappalardo, ‘Inquisizione spagnola, in I.D.i-S. - Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un Dizionario del Pensiero Forte, in http://www.alleanzacattolica.org

 38E. MONTECCO, cit, pp.1-2.

 39 Ivi, pag. 2.

 40 La divisione della città di Napoli in Seggi o Sedili si deve a Carlo I nel 1268. I primi Sedili furono soltanto dei luoghi di ritrovo di varie caste cittadine. Così organizzati, i nobili prendevano parte alla pubblica amministrazione, gestivano l’annona e le cariche pubbliche. Situati presso le porte della città, essi avevano attribuzioni giuridiche e amministrative: erano una specie di parlamento, nel quale si riunivano gli eletti del proprio rione. I nobili avevano anche il compito di salvaguardare sia le porte che le torri che fiancheggiavano i propri Sedili. Potere, che con l’andar del tempo, fu ambito da molti, e specialmente da quelle famiglie popolari che, avendo raggiunto un consistente prestigio economico, facevano di tutto per far parte della casta che gestiva il potere della città. Ad un certo punto venendo ad essere troppe e non di facile gestione le domande di adesione, i governanti locali rimisero le richieste, sia di aggregazioni sia reintegrazioni, direttamente all’assenso del Re. Nel Regno di Napoli si cominciò con Filippo II. A Napoli, i Seggi furono sette, sei dei nobili: Capuana, Montagna, Nido, Porto, Portanova e Forcella e l’altro del Popolo. Durante il dominio aragonese, il Seggio del Popolo fu avversato dai nobili e fu eliminato con la distruzione materiale. Lo ricostruì Carlo VIII, che invitò i nobili a governare la città in collaborazione con il popolo: per un brevissimo periodo, questo ebbe gli stessi diritti della nobiltà. I Sedili napoletani durarono circa sei secoli: dopo la rivoluzione del 1799 con un editto del 1800 furono incamerati da Ferdinando IV.

 41 E. MONTECCO, cit, pp. 2-3.

 42 Ivi, pag. 3.

 43 A Napoli il vecchio Palazzo-fortezza, voluto da don Pedro de Toledo, e costruito a metà del secolo XVI da Ferdinando Manlio, era insufficiente alle nuove esigenze dei Vicerè. Il “nuovo” palazzo, che è quello citato dal documento del Montecco, venne ubicato a fianco del “vecchio”, più vicino al mare, affacciato sulla Darsena e contiguo a Castel Nuovo, alla fine dell’importante asse di Via Toledo e all’inizio della zona di espansione verso Chiaia e Posillipo. La progettazione fu affidata dal Viceré Ferrante Ruiz de Castro, conte di Lemos, all’architetto Domenico Fontana (1543-1607), tra i più famosi del tempo, disegnatore della Roma sistina e attivo da qualche anno a Napoli in opere di sistemazione urbanistica come “Ingegnere Maggiore del Regno”. Il palazzo, costruito nel 1600, davanti aveva un ampio slargo, utile per parate militari e manifestazioni di popolo, che prese il nome di Largo di Palazzo, l’odierna Piazza Plebiscito; dietro aveva una zona verde recintata e tenuta a giardino fin dai tempi degli Angioini, come è documentato dalla tavola Strozzi a Capodimonte. Subì delle trasformazioni nel Settecento: Luigi Vanvitelli, a seguito di problemi statici, per rafforzarne le strutture murarie, chiuse alternatamente gli archi della facciata. Danneggiato da un incendio nel 1837, il Palazzo venne restaurato da Gaetano Genovese, autore dello scalone monumentale e della sistemazione del lato meridionale del Palazzo, con il cortile del Belvedere e il giardino pensile. Nelle nicchie furono collocate, nel 1888, le statue dei re di Napoli, da Ruggero il Normanno a Vittorio Emanuele II. Le sale più antiche del piano nobile, oggi Museo dell’Appartamento Storico, conservano l’arredo e le decorazioni delle famiglie reali: il Teatro di Corte, la splendida Sala degli Ambasciatori, la Sala del Trono, la Sala d’Ercole, la Cappella Palatina dedicata all’Assunta. Fu sede dei viceré, dei Borbone e saltuariamente dei Re d’Italia; oggi ospita la Biblioteca nazionale.

 44 A Napoli, la Chiesa e il monastero di Santo Spirito erano ubicati nel sito dell’attuale Palazzo della Prefettura, che si affaccia su Piazza Plebiscito. La Chiesa di Santo Spirito, in cui era stato sepolto il capostipite napoletano dei principi Pinto, fu sede dell’arciconfraternita di S. Ferdinando di Palazzo di Nostra Signora dei Sette Dolori, che risaliva al 1522, che trovò successiva sede nella Chiesa omonima, costruita tra il 1622 e il 1655, e dedicata nel 1769 da Ferdinando I di Borbone al suo santo protettore. Furono confratelli di questa nobilissima arciconfraternita i re di Napoli a cominciare da Carlo di Borbone, le regine, alcuni pontefici, e dopo l’Unità d’Italia, i re sabaudi fino ad Umberto II. Anche nel laico decennio francese ebbe la “protezione” di Giuseppe Bonaparte. Con il bando di concorso del febbraio 1809, Gioacchino Murat iniziò la trasformazione dell’intera area proprio con la demolizione delle chiese di San Luigi e Santo Spirito. Con il successivo concorso, bandito da Ferdinando IV il 6 settembre 1815, Pietro Bianchi curò la realizzazione della chiesa di San Francesco di Paola. Parte integrante della nuova piazza, furono la costruzione dell’edificio, oggi sede della Prefettura, ad opera di Leopoldo Laperuta (1812-1815), originariamente destinato a Foresteria del Real Palazzo, e la risistemazione del Palazzo Salerno, già trasformato tra il 1792 e il 1798 da Francesco Securo in Palazzo dei Ministri di Stato Borbonici.

 45 E. MONTECCO, cit.; pp. 3-4. Le motivazioni che spinsero i Pinto ad insistere a fregiarsi dell’abito di Alcantara piuttosto che di quello di Avis ci sono sconosciute. Forse preferirono dimenticare, e far dimenticare a tutti i contemporanei ed ai posteri le loro origini portoghesi. In seguito, comunque, si faranno insignire ufficialmente dal Re del nobilissimo ordine spagnolo di Colatrava, il corrispondente spagnolo dell’Ordine cui già appartenevano in Portogallo.

 46 Ivi; pp. 4-5.

 47 E. MONTECCO, cit.; pag. 5.

 48 Ivi, pp. 5-6.

 49 La carica corrisponde a quella del Ministro delle Finanze, ma allora il Tesoriere pagava su ordine del Re; rendeva conto a lui soltanto. Oggi deve seguire le linee programmatiche del bilancio dello Stato e rendere conto del suo operato al Parlamento.

 50 Ivi; pp. 6-7.

 51 Ivi, pag. 7.

 52 cfr H. KAMEN, L’Inquisizione spagnola, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973. Lo storico afferma che altri 250.00 ducati furono estorti a Diego de Savaria nel 1641 e 100.000 ducati al Patarino nel 1646.

 53 Kamen ha rilevato che enormi somme furono prelevate dall’Inquisizione ai banchieri portoghesi dopo la caduta di Olivares: 300.000 ducati versati da Manuel Férnandes Pinto nel 1636, 250.00 ducati estorti a Diego de Savaria nel 1641, 100.000 ducati al Patarino nel 1646. L’Inquisizione non si limita a punire. Crea una memoria della vergogna: “porta via i beni; priva dell’onore”. cfr. B.BENNASSAR, Storia dell’Inquisizione spagnola XV-XIX secolo, Rizzoli, Milano, 1980, pag. 123.

 54 Benassar cita un drammatico documento, tratto da un diario di questo periodo: “Da sabato scorso l’Inquisizione di Madrid ha gettato in carcere diciassette famiglie portoghesi (...). In via dei Peromostenses si costruisce in fretta una prigione abbastanza grande da accogliere tutti gli sventurati, che ogni giorno cadono nella trappola. Alcuni sostengono che non c’è a Madrid un portoghese, di qualsivoglia condizione sociale, che non giudaizzi» (18 settembre 1655). «Lunedì 13 a mezzanotte l’Inquisizione ha arrestato quattordici portoghesi, finanzieri e commercian­ti, in particolare due venditori di tabacco. Questa gente si moltiplica come i funghi [...] » (16 settembre 1655). «Non c’è più un venditore di tabacco a Madrid che l’Inquisizione non abbia fatto arrestare. L’altro giorno hanno portato via due intere famiglie, genitori e fi­gli...) (23 ottobre 1655). I registri delle confische confermano il moltiplicarsi degli arresti: a Cordova, per esempio, negli anni 1541-1543, la somma dei beni sequestrati si aggirava sui 10.501.126 maravedis (28.488 ducati) mentre un secolo più tardi (1652-1655) era di 52.100.115.

 55 Maravedis (nome di un’antica moneta araba) è la più piccola Unità monetaria. Del sistema valutario spagnolo facevano parte anche il real (composto di 34 mara­vedis) e il ducato (375 maravedis).

 56 I conversos o Nuovi Cristiani vennero indicati col dispregiativo epiteto di marrani, che non sembra derivare da un’espressione Ebraica, significante “per la vista”, cioé “per l’apparenza”, ma piuttosto significava “maledetto”.

 57 Cfr B.BENNASSAR, Storia dell’Inquisizione spagnola XV-XIX secolo, Rizzoli, Milano, 1980, pag. 141-142-143-144. Fino ad allora, nonostante le “persecuzioni”, i conversos di origine giudaica, avevano rivestito alte cariche ecclesiastiche, oltre che politiche. Avevano dominato l’economia, la cultura. Quando nel 1492 fu ventilata l’idea di promulgare l’editto di cacciata definitiva per Judios e Moriscos, le comunità Ebraiche avevano offerto l’iperbolica somma di 300.000 ducati, pur di ottenere licenza di restare negli stati dei Re Cattolici. La coppia reale fu dibattuta tra la cacciata e la concessione di grazia. Si racconta che a un tratto entrò nella sala del consiglio Tomàs de Torquemada (di origine ebraica, al pari dell’altro Grande Inquisitore Diego de Deza), che, gettando sul tavolo dietro al quale sedevano i Reali il crocefisso, esclamò: “Giuda Iscariota vendette il Salvatore per trenta denari. Le Loro Altezze lo vogliono vendere per 300.000 ducati. Ecco, prendete e vendetelo!”. Si racconta che Isabella di Castiglia abbia, allora, rimproverato al marito, Ferdinando d’Aragona, per la sua eccessiva moderazione nei confronti degli Ebrei, imputandola al fatto che il consorte era figlio di una Henriquez, di origine ebraica. Numerose furono, comunque, le concessioni nobiliari ad Ebrei convertiti al Cristianesimo, specie in Spagna e Portogallo. Il culto della hiberidad per la limpieza de sangre e la nobleza d’origine gotica dovette fare i conti con un enorme zoccolo demografico di conversos, divenuti esponenti della più cospicua e potente nobiltà. Il Libro Verde de Aragón, compilato nel 1507, attestò l’origine ebraica da parecchi di coloro che ricoprivano le più alte cariche laiche ed ecclesiastiche di quel Regno. Nel 1623 Filippo IV, forse per evitare polemiche verso il suo operato di sostanziale apertura ai finanzieri portoghesi di origine giudaica, ordinò il rogo del libro suddetto.57 Nel 1581 vennei pubblicato il Tizòn de la nobleza española, attribuito al celebre Cardinale Francisco Mendoza y Bobadilla, che già s’era battuto a favore dell’allontanamento dagli ordini cavalleresco-militari di quanti non fossero di sangue limpio. Nel Tizòn, un alone di dubbio e di virtuale impurezza viene fatto cadere sulla più alta aristocrazia: soltanto 48 famiglie nobili sono considerate ‘non contaminate’. La Santa Inquisizione, dopo lunghe e minuziose indagini, rilasciava certificati di limpieza di sangre per quarti; un catalogo ancora esistente presso l’Archivio di Toledo ne riporta circa 5.000.. Cfr A. SCORDO, Ebrei e nobiltà, relazione tenuta per VIVANT in data 23 marzo 2000 cfr ww.vivant.it

 58 Cfr A. SCORDO, Ebrei e nobiltà, cit.

 59 Vengono citati anche i Vargas, duchi di Cagnano, famiglia diversa dalla “limpia (limpida, cioè pura) Vargas Machuca, feudatari di Ischitella.

 60 A. SCORDO, rel. cit.

 61 Qualcuno preferì espatriare a Mantova, ma moltissimi Ebrei restarono nel regno Citra Pharum. Qui le discriminazioni spinsero anche gli irriducibili a convertirsi al cattolicesimo Le immunità loro concesse erano cospicue, anche se i neofiti furono sempre considerati con sospetto. Nel 1294 soltanto 1.300 famiglie si professavano ancora di fede ebraica. La loro più alta concentrazione si ebbe a Trani (memorabile il detto attribuito a Federico II: “Fugite Tranenses qui sunt de sanguine Judaico”), la cui comunità dette studiosi di livello e leali funzionari. Cfr A. SCORDO, Ebrei e nobiltà, relazione citata.

 62 C.CANNAROZZI, Biografie Ischitellane, Tipografia ed. Esca Vicenza, 1974, pp. 50-64.

 63 Sotto Roberto d’Angiò (1309-1343), i Baroni riuscirono ad ottenere la trasformazione del servizio militare (adohamento) in prestazioni in denaro e poi la possibilità di riscuotere dai vassalli una parte di questo obbligo primario di ogni feudatario. Nell’Archivio di Stato di Napoli, i ruoli di questa imposta a carico dei feudatari, corredati dalla trascrizione dell’intero procedimento relativo all’acquisizione e trasmissione ereditaria di un feudo, sono catalogati nel “Cedolario”.

 64 A.S.N. Commissioni feudali, 193, ff.106 sgg , in C.CANNAROZZI, Ischitella, Candela, 1955.

 65 A.S.N. Repertorio Quinterniori, 278 (num. nuova), ff.138 sgg., in C.CANNAROZZI, Ischitella, cit.

 66 cfr G.LAGANELLA, L’arrivo dei principi Pinto ad Ischitella, “Il Gargano nuovo”, 7 luglio 2001. che elenca gli “abitatori” del Castello. I nominativi, per gentile concessione del ricercatore, sono citati integralmente nella nota successiva.

 67 Lo Stato d’Anime del 1691, attesta che gli “abitatori” del Castello erano: l’ll.mo Ecc. D. Luigi Pinto y Mendoza della città di Napoli, Prencipe di terra d’Ischitella, figlio di Emanuele Pinto Mendoza e Girolama Capece Bozzuto; (di anni 25); Girolamo Nelvino di Napoli di Agostino e Laura d’Apollo (di anni 28); Marino di Ignazio del Giudice e altro non si sa; (altro servo dello stesso) (di anni 18); Gio. Batta. Della terra di Cristolino servo di anni 45; Leonardo d’Ischitella di Giuseppe Virgilio di Napoli e Vittoria Vigilante servo di anni 28; Cesare della terra di Noia servo dello stesso di anni 30; Leonardo di Peschici servo dello stesso e altro non si sa di anni 20; Giuseppe Pinto schiavo dell’istesso di anni 9; Emanuele Pinto servo del medesimo di anni 40; Isabella di Rodi di Cesare delle Fave e Paola Ricciardi di anni 58. Cfr. G.LAGANELLA, L’arrivo dei principi Pinto ad Ischitella, cit.

 68 Nel 1692  si aggiunsero Domenico Paolino di Francesco e Camilla di Biase c.gi di detta terra servo; (nella prima casa, mentre venne a mancare Isabella di Rodi). E nella seconda casa: don Francesco di Napoli di Nicolò Zarli e Anna Sarelio c.gi di detta città; (di anni 41); Camilla di Napoli moglie di Nicolò d’Aniello e Violante d’Amici di detta città di anni 43; Anna figlia di anni 8; Nicolò figlio di anni 6; Gio. Batta di anni 4; Maria di anni 4; Angela di Peschici di Fr.co Iannoli e Caterina Cartabianca c.gi di detta terra di anni 19. Cfr. G.LAGANELLA, L’arrivo dei principi Pinto ad Ischitella, cit  Dal Registro dei Morti della Chiesa Madre risulta che il 2/8/1697 morì Emanuele Pinto Capece Bozzuto di mesi 11, figlio  di Luigi Pinto e Rosa Caracciolo.

 69 Il primo stemma araldico dei Pinto è rappresentato da uno scudo sannitico rosso con cinque crescenti (= mezzelune) d’oro, con le punte in alto disposte in numero di 2, 1, 2.

 70 Francesco Pinto, Marchese di Giuliano, di anni 5, figlio di Don Luigi Pinto Capece Bozzuto e donna Rosa Caracciolo, ambedue di Napoli viene cresimato a Ischitella, dal Rev Sd Gennaro Paschade di Manfredonia nel 1697.La notizia è stata reperita da Giuseppe Laganella sul Libro dei Cresimati di Ischitella.

 71 Il Castello di Peschici risalirebbe all’anno 970, quando i Bizantini fecero edificare dei centri fortificati in Capitanata. In epoca normanna, nell’anno 1150, il conte Goffredo di Lesina nel feudo di Pesckizo aveva cinque militi. Nel periodo svevo il Castrum Pesquicii fu riparato dagli abitanti di Canneto, Montenero (un casale presso Vico), Sfilzi e Rodi. Nel 1239, le fortificazioni di Termoli, Vieste e Peschici furono rase al suolo dai Veneziani che il papa Gregorio IX armò contro lo scomunicato Federico II. Si racconta che l’imperatore in persona, per riparare il danno e ringraziare queste città che avevano subito il danno pur di essergli fedeli, fece un sopralluogo “per disegnarvi di nuove”. Il Castello vanta quindi origini federiciane di tutto rispetto. Sotto gli spagnoli, nel 1504, entrò nel sistema di difesa costiero contro il pericolo turco. E’probabile che il Recinto Baronale sia stato realizzato proprio allora: il principe d’Ischitella, Emanuele Pinto, restaurò il Castello nel 1735, lo ricorda un’epigrafe all’ingresso del Recinto Baronale. Abbattimenti e modifiche investirono i piani superiori e gli ambienti di rappresentanza. I sotterranei e le Segrete sono oggi visibili grazie al restauro eseguito di recente dai proprietari, Domenico e Sergio Afferrante. I muri portanti sono massicci, l’apparato murario grezzo, ed alcuni ambienti ampliati. Resti di una struttura semicircolare indicano la presenza di una torre, di un pozzo o più probabilmente di un silos per il frumento, che assicurava piena autonomia alla fortezza, in caso di assedio nemico.

 72 E’ l’ipotesi di padre Ciro Cannarozzi in Ischitella, cit.

 73 A.S.F., Dogana delle pecore di Foggia, s.V, b. 59, fasc. 4680.

 74 Cfr. T.M.RAUZINO, Problemi socio-demografici, strutture familiari ed assistenziali a Peschici nel Seicento e nel Settecento, in AA.VV., Chiesa e religiosità popolare a Peschici, a cura di Liana Bertoldi Lenoci e Teresa Maria Rauzino, Centro Studi Giuseppe Martella, Iaconeta, Vieste, 1999, pag.178. La Torre di Quadranova risulta abitata nel 1792 dal sergente Eugenio Chiarelli, dalla moglie di questi e da Bernardo Bonomo.

 75 Cfr. C. CANNAROZZI, Ischitella, cit.

 76 La storia di Quadrelle inizia nel XIV secolo. Era un possedimento feudale dell’abbazia di Montevergine, forse organizzato in grancia, cioè con un podere annesso ad un’abbazia benedettina. Nei primi decenni del ‘500 passò in proprietà alla Santa Casa dell’Annunziata di Napoli. Nel 1613, i Barile, nobile famiglia napoletana, acquistarono “una casa con giardino”, da identificarsi con l’antica sede della proprietà abbaziale. Da sito agricolo legato a necessità produttive, il giardino cominciò ad assumere il carattere di luogo di ornamenti e di delizie. Tutte le altre famiglie baronali che seguirono nella proprietà del palazzo, da don Paolo Braccio barone di Cutignano e San Silvestro, a don Francesco Emanuele Pinto, Principe di Ischitella, fino ai Pagano che lo acquisirono nel 1773 (e ne sono gli attuali proprietari) lo arricchirono di piante rare ed opere architettoniche. Cfr. sito Internet di Quadrelle (Avellino): http://digilander.iol.it/quadrelle.

  Il palazzo, il giardino ed i fondi adiacenti hanno sempre fatto capo ad un unico proprietario, per cui le variazioni formali derivarono da finalità progettuali. Le tecniche seicentesche di costruzione, volute dalla Casa dell’Annunziata, furono all’avanguardia per l’epoca: costruzioni edilizie ed idrauliche, materiali utilizzati, elementi decorativi e simboli allegorici, sono di una originalità unica.

 77 La famiglia Pagano arricchì il giardino di sempre maggiori ornamenti, conservando le caratteristiche originarie delle quattro aiuole e delle tre fontane a rocailles e di altre due, una circolare ed una ottagonale, che delimitano gli incroci degli stessi viali. Il palazzo, a pianta quadrata con cortile centrale - nella originale edizione seicentesca - , ha subito poi nel tempo notevoli trasformazioni tra cui la demolizione del volume sulla strada per la creazione di una piazzetta. Cfr.http://digilander.iol.it/quadrelle

 78 Quadrelle ebbe l’acqua pubblica, grazie a Francesco Emanuele Pinto. Dovendo ampliare e ristrutturare il suo Palazzo, egli chiese all’Universitas di poter togliere l’acquedotto del cellaio dove attingevano i cittadini. Per tale motivo, il 19 giugno 1746 venne stipulata una convenzione: le sorgenti provenienti dai monti, e utilizzate da sempre anche per le fontane del giardino, vennero concesse in uso alla popolazione attraverso una fontana da costruirsi innanzi all’ingresso del Palazzo, in uno spiazzo ceduto appositamente all’Universitas. Cfr. http://digilander.iol.it/quadrelle

 79 Cfr. F. STRAZZULLO, Tradizioni sacre popolari e scultura del ‘700 a Napoli, ivi 1968) e V. PACELLI, La collezione di Francesco Emanuele Pinto, Principe d’Ischitella, in “Storia dell’Arte”, 1979.

 80 Questo presepe era accuratamente descritto in un documento che oggi è purtroppo perduto. Cfr. G. G. BORRELLI, Il Presepe napoletano, tratto da “Pastori e Presepe Napoletano” volume curato dal Consorzio CAPAN e realizzato dalla Camera di Commercio di Napoli, Elio De Rosa editore, Napoli , 1998., in http://www.na.camcom.it/artigianato_artistico/presepe.htm

 81 Ivi.

 82 Cfr. www.mclink.it/presepi/presepi97b/italiano/nap_3.htm

 83 Cfr. www.mclink.it/presepi/presepi97b/italiano/nap_3.htm

 84 Cfr. C. CANNAROZZI, Ischitella, cit. e Biografie Ischitellane, cit. In particolare vedasi il paragrafo: Vicenda della Chiesa di San Michele, oggi Sant’Eustachio, nel presente saggio.

 85 A.S.F., Dogana delle pecore di Foggia, s.V, b. 81, fasc. 5285. cfr M. R. Tritto, Frammenti di storia peschiciana in G. Gerardi; Peschici città delle sedici porte, a cura di Enrico Crispolti, Massimo Bignardi, Electa, Milano, 1987, pp. 37-49.

 86 C. CANNAROZZI, Francesco Pinto, principe di Ischitella, Il Gargano Quaderno, n. 17 del 1962

 87 Rimando al saggio di Nazario Barone ed alla traduzione di Mariagraziella Belloli delle “Mémoires et souvenirs de ma vie” di Ischitella ovvero Francesco Pinto, nei presenti ATTI.

 88 ARCHIVIO STATO FOGGIA (A.S.F.), Consiglio di Intendenza di Governo, di Prefettura di Capitanata, 1^ Camera, Processi 1801-1866, fascio 20, fasc.526, Comune di Ischitella. Divisione delle Mesole demaniali Ischitella 1812-1813.

89 Nel suo testamento, datato 14 marzo 1701, il canonico d’Avolio annota che il risarcimento non gli è stato pagato da Luigi Pinto; cfr. C. CANNAROZZI, Biografie Ischitellane, cit. pag. 51

 90 Ivi

 91 Alfonso Pinto fece apporre sul quadro la seguente scritta: “Capecius Bozzuto, eques S. Giacobi, regis consiliator praefectus rationum Regni Neapolitani”.

 92 Il Capitolo di Santa Maria Maggiore, per sostenere la causa contro il Principe Pinto, si indebitò per 600 ducati. Nel 1772 ottenne una sentenza favorevole, ma Pasquale Pinto ricorse in appello all’arcivescovo, che gli diede ragione.

 93 L’attuale ex Cinema Giannone.

 94M. MANICONE, La Fisica Appula, Napoli, 1806-1807, voll.5, pag 713 

95 M. MANICONE, La Fisica Appula, Napoli, 1806-1807, voll.5, pag 713.

 96 Ivi, pp.713-714.

 97 Manicone lamenta, a tale proposito, la pericolosa abitudine di usare travi di legno nei camini e nel soffitto. Sostiene che sarebbe più sicuro realizzarli a volta, in pietra, mattone e stucco, come si usava in Spagna. Consiglia anche di adoperare il cemento mahoniano, economico e non incendiabile.

 98M. MANICONE, La Fisica Appula, Napoli, 1806-1807, voll.5, pp.716-18.