PARTE II

 

MALTA 1565

 

 

 

 


La situazione politica: gli ultimi anni della supremazia turca

 

I Cavalieri di San Giovanni nella nuova sede di Malta si trovarono in prima linea a combattere contro le potenze islamiche, sia contro il tradizionale nemico, l’Impero Turco, che contro gli Stati Barbareschi. Mi sembra doveroso soffermarsi sul concetto di Stato Barbaresco, spesso foriero di equivoci. Innanzi tutto non si tratta, come alcuni hanno sostenuto, di covi di pirati in cui si trovavano solo bagni penali e empori di schiavi,[1] bensì di organizzazioni statali evolute, con precise istituzioni politiche e una struttura sociale multiforme. L’equivoco in cui incorre il Panetta è quello di non considerare l’organizzazione statale ottomana, in relazione in particolare agli stati tributari del Nord Africa. Il Sultano governava le provincie estreme del proprio impero attraverso un rapporto personale che per certi versi ricorda il feudalesimo europeo: nei vari Principati (Algeri, Tunisi, Tripoli, Egitto, Valacchia, Moldavia) poneva persone di fiducia, conferendo loro il governo di quei territori come premio per i servigi resi allo Stato. E’ chiaro a questo punto che il Sultano nella scelta dei propri vassalli seguiva un criterio di convenienza. Nei Balcani inviava esponenti della nobiltà fanariota[2], più fidati che i discendenti delle antiche dinastie reali romene, nel Maghreb i corsari che si erano distinti per le loro capacità strategiche: nel primo caso la convenienza sta nel porre dei sovrani non troppo dissimili dalle popolazioni soggette ma che garantissero una ferrea fedeltà, nel secondo caso sta invece nell’esperienza della guerra contro gli Europei. Negli stati barbareschi spesso si trovava molta più libertà religiosa che in Europa: gli Ebrei Andalusi avevano trovato qui la loro nuova patria dopo la cacciata dalla Spagna, e i mercanti livornesi, siciliani e marsigliesi disponevano tutti di una chiesa cristiana. (Da notare che in ogni modo anche a Genova e Livorno i musulmani disponevano di edifici di culto).[3] Solo in un’epoca successiva (XVIII secolo) le dinastie dei Bey di Tunisi e Tripoli diverranno ereditarie, mentre il dì Dey di Algeri rimarrà quello con connotati militari più vividi e sarà l’unico elettivo, fino alla conquista francese del 1830.[4] Gli Stati Barbareschi, quindi, erano organismi statali con una struttura politica e sociale definita e praticavano la guerra di corsa, non solo come fonte di arricchimento, ma anche come forma di azione politica e militare. Prima di procedere nell’esposizione degli eventi mi pare fondamentale chiarire l’etimologia del termine barbaresco: sebbene a prima vista potrebbe sembrare collegato al sostantivo "barbaro" in realtà deriva dal termine Barberia, usato per definire il Nord Africa e che significava paese dei Berberi. Il termine non aveva quindi nulla di dispregiativo all'origine ma indicava solo la componente etnica principale della popolazione.

Sul fronte cristiano si assisteva ad un impegno tutto spagnolo contro i Turchi. Gli Stati Italiani (legati tutti alla Spagna, Toscana e Savoia innanzi tutti) erano al suo fianco, così come lo erano Malta e la Chiesa. Ben diversa era la posizione di Venezia, per certi versi analoga a quella della Francia: esse ricorsero spesso a trattati di pace separati, la prima per ragioni di sopravvivenza, la seconda per antagonismo alla Spagna. La scena mediterranea vede quindi una politica di tentativo di dominio tutta spagnola, spesso frustrata da grandi sconfitte. Più che il padre Carlo V, è Filippo II d’Asburgo a impegnarsi in una politica mediterranea: per capire a fondo questo scenario politico risulta fondamentale l’opera di Fernand Braudel Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Nata come tesi di laurea, fu successivamente ampliata fino a segnare una svolta nella visione di un periodo fondamentale per la comprensione degli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia politica dell’Europa Meridionale. Braudel si interroga proprio sui motivi che condussero Filippo II a condurre una guerra ad oltranza contro i Turchi: una frase dello storico francese è a tale proposito emblematica, “La guerra continua nel Mediterraneo quando l’Occidente se ne libera ad ogni costo”.[5] Effettivamente la stessa Spagna pone termine ai conflitti che l’hanno scossa durante il regno di Carlo V. La situazione interna non è delle più favorevoli, per le difficoltà finanziarie, per il malessere politico, per i conflitti religiosi, per la rivolta nei Paesi Bassi. Ciò nonostante, Filippo II prosegue la sua guerra nel Mediterraneo, con alterne vicende. All’interno di questa lunga guerra, “indecisa, oscillante, oscura”[6] si inscrive l’episodio dell’assedio di Malta nell’estate del 1565. Braudel sottolinea l’importanza dell’episodio a livello mediterraneo, astraendolo da una visione tradizionale che lo vedeva come un episodio di valore dell’Ordine di San Giovanni, procrastinando a Lepanto (1571) una svolta decisiva nella situazione politica e militare. A tale proposito è significativo il giudizio finale che Camillo Manfroni riserva all’assedio:

 

“In complesso la campagna navale del 1565, se non fu gloriosa per Filippo II, che meritatamente viene accusato da tutti di egoismo, di impreveggenza e di lentezza, non fu disonorevole per l’armata italiana. Essa aveva fatto quel che aveva potuto e i generosi ardimenti di Andrea Provana e di Gian Andrea D’Oria provano che, se il numero delle galee fosse stato maggiore, avrebbero pagata cara la loro temerità. L’assedio poi crebbe la gloria ai Cavalieri di Malta, che così eroicamente avevano saputo resistere e cancellò negli animi dei nostri marinai i funesti ricordi delle Gerbe”[7]

 

Un giudizio simile è totalmente fuorviante e nasce dall’intento di forzare gli eventi passati, per dare loro un’impronta tale da soddisfare un progetto di storiografia nazionalistica italiana. Sembrerebbe, quasi, che solo il valore italiano abbia salvato Malta da sicura sconfitta e che se vi fosse stata una forte marina “italiana” i Turchi avrebbero subito una disfatta memorabile. In realtà i meriti del sovrano spagnolo e di don Garcia de Toledo furono indiscutibili e possono essere negati, solo, qualora si voglia colorare un episodio di tinte nazionalistiche che non gli appartengono. Va comunque segnalato che gli Spagnoli dimostrarono una certa indecisione nell’affrontare gli eventi e che la prontezza del Doria fu vitale per le sorti di Malta ma questo non basta per parlare di una vittoria tutta italiana; Braudel bolla l’analisi di Manfroni con una sentenza lapidaria: “Vane contese di nazionalità, ciarle di cronisti ricantate dagli storici”.[8] Sicuramente un grande problema per storici come Manfroni e Panetta nasce nell’utilizzo di fonti partigiane come l’opera di padre Guglielmotti, Storia della Marina Pontificia, in cui influisce pesantemente l’atteggiamento mostrato da Papa Pio IV che in virtù della propria ostilità verso il Re di Spagna attribuì la vittoria a Dio ed ai Cavalieri.[9]

A mio parere però l’errore di giudizio fondamentale non sta tanto nella realtà dei fatti, quale è stata riproposta da Manfroni, quanto nella considerazione della portata dell’evento che Braudel ha definito “prova di forza”. Per lo storico francese il 1565 è l’ultimo anno di supremazia Turca e segna una nuova, fondamentale, tappa nella ripresa spagnola. Mi sembra a questo punto doveroso analizzare brevemente la storia del periodo 1559-1565, vedendo in che modo la supremazia turca si concretizzò negli eventi bellici: con la rottura delle trattative diplomatiche ispano-turche comincia un periodo di tensione che vede la Spagna soccombere di fronte ai nemici.[10]

Nel 1559 viene decisa la spedizione di Gerba (Djerba) di cui furono sostenitori il Gran Maestro di Malta Jean Parisot de la Vallette[11] e Don Juan de la Cerda, Duca di Medinaceli, Grande di Spagna e Viceré di Sicilia: l’obiettivo era la riconquista di Tripoli, già appartenente ai Gioanniti e caduta il 14 agosto 1551, ora governata da Dragut[12] in nome del Sultano. L’impresa appariva alla portata delle forze che si intendevano utilizzare: la città era difesa da una guarnigione ridotta (500 Turchi, oltre a mercenari berberi) e inoltre Dragut si trovava a dover combattere contro alcuni capi locali, tra cui l’emiro di Kairouan.[13] Subito però si creò dissidio fra Filippo II e il Duca di Medinaceli che concepivano in maniera diversa la spedizione: il primo desiderava un’azione rapida da condursi nell’estate del 1559 mentre il secondo aveva un progetto complesso ed articolato, per la cui realizzazione erano necessarie le truppe di stanza in Italia. I ritardi nella concentrazione delle fanterie provenienti dal Ducato di Milano e dal Regno di Napoli, sia quelle inquadrate nei ranghi spagnoli che in quelli melitensi, fecero sì che l’estate passò e che si giungesse fino ad autunno inoltrato, suscitando nel sovrano forti perplessità: “Sono molto preoccupato per il successo della spedizione perché il momento è tardivo” scrisse al Duca di Medinaceli.[14] Le esitazioni e i problemi sorsero sia per la difficile situazione italiana che per la preoccupazione, forse esagerata, che suscitò la morte di Enrico II di Francia nel Governatore di Milano, Don Consalvo Fernandez de Cordoba, Duca di Sessa. Si giunse al 1° dicembre perché la flotta potesse salpare da Messina: ovviamente non si poteva certo più contare sull’effetto sorpresa. A causa del cattivo tempo la flotta dovette rimanere dieci settimane a Malta per poi poter risalpare e gettare l’ancora presso Zuara, sulla costa della Tripolitania. Dragut frattanto era tornato a Tripoli, lasciando Gerba dove si era recato in precedenza: il Duca di Medinaceli non volle attaccare la città ma preferì far vela per l’isola. La flotta, immobilizzata dal maltempo, salpò dopo una ventina giorni in cui le epidemie fecero strage delle milizie spagnole, già decimate a Malta da analoghe cause. All’inizio di aprile Gerba era presa, dopo che il 7 marzo era avvenuto lo sbarco senza che vi fosse opposta resistenza: il Viceré scelse uno sceicco di fiducia come sovrano tributario di Spagna e diede l’inizio ai lavori di costruzione di un forte nel nord dell’isola. I soldati, la cui salute era messa a dura prova dal clima, da febbri e dalla cattiva alimentazione dovettero sobbarcarsi interamente i lavori di sterro per la scarsa collaborazione degli indigeni, riducendo così ulteriormente i propri effettivi. Il Sultano frattanto, avvertito già a febbraio degli avvenimenti, inviò Pialì Pasha, Kapudan-Pasha (comandante in capo della flotta imperiale) che si avvicinò velocemente all’isola, in soli venti giorni, in netto anticipo sul periodo usuale di navigazione (lo stesso Duca di Medinaceli aspettava le navi nemiche per giugno). L’11 maggio i Turchi giunsero al largo di Gerba: il Viceré era stato preavvisato da una fregata melitense il giorno prima e decise senza esitazione per la fuga; tuttavia occupò la notte fra il 10 e l’11 a caricare le fanterie tedesche e italiane, ancora a terra, perdendo così l’occasione di evitare un disastro. Quando il giorno dopo i Turchi attaccarono la risposta spagnola fu di completo panico e le navi cristiane si volsero alla fuga, svuotando le stive per accelerarla. La disfatta fu memorabile: su 48 imbarcazioni 28 andarono perdute e non vi fu neppure un combattimento onorevole: solo il genovese Domenico Cigala[15] impegnò i nemici opponendo loro una resistenza disperata. Il forte, dove erano rimasti chiusi i soldati spagnoli al comando di Don Alvaro de Sande, si arrese il 31 luglio, dopo la cattura del comandante due giorni prima. Re Filippo non aveva voluto mandare soccorsi, lasciando i propri soldati abbandonati a loro stessi. [16] Gli anni tra il 1561 e il 1564 furono caratterizzati dall’usuale guerra di corsa ma dalla assenza della flotta imperiale ottomana. Gli avvenimenti di questi quattro anni non possono essere ascritti ad uno scenario bellico di ampio respiro ma rientrano in quello stato di tensione continua fra Occidente ed Islam proprio del Mediterraneo. Bisogna attendere il 1565 perché si riproponga un attacco in forze da parte turca. Attacco di cui è vittima proprio Malta.

 

 

Malta sotto assedio

 

 

Parlare di cause per la spedizione turca contro Malta è difficoltoso: e lo è per due ragioni precise. Innanzi tutto il fatto si inserisce in un periodo di tensione quindi risulta molto difficoltoso enucleare un gruppo di eventi da ascriversi come motivo di una risoluzione esclusiva contro l’Ordine di San Giovanni e non tanto come eventi che motivarono un rancore generale contro la Spagna, e, di conseguenza, Malta. In secondo luogo è ben problematico affrontare il tema di un analisi della politica di un governo, quello turco, senza potere attingere direttamente dai suoi documenti, ufficiali o segreti. Pertanto mi limiterò a citare quegli eventi che Francesco Balbi indica come motivi di risentimento del Sultano Sulaiman. Bradford li riporta pedissequamente colorando a tinte a mio giudizio troppo romanzesche il Sultano attorniato dalle Principesse Ottomane che lo esortano a combattere i cristiani (lo storico peraltro, errore comune, afferma che Balbi era spagnolo).[17]

Seguendo l’esposizione di Balbi troviamo alcuni audaci colpi della flotta gioannita che furono perpetrati ai danni di esponenti della famiglia imperiale Ottomana. Oltre al progetto di una spedizione contro le installazioni turche di Malvasia, sarebbero stati motivo di grande risentimento per l’appunto alcune azioni condotte da Fra’ Mathurin de Lescout de Romegas che catturò due importanti personaggi della Corte del Sultano: una dama ultracentenaria di nome Giansever (forse la nutrice della figlia prediletta di Sulaiman oppure la zia di Alì Pasha) ed un alto funzionario, un Sanjaz-Bey (governatore di un sangiaccato in Egitto, Balbi esagera dicendolo “Viceré di una provincia”). Sempre Romegas, comandante delle galere del Gran Maestro, questa volta con Fra’ Pierre de Giou, comandante delle galere della Religione (quelle armate dall’Ordine), riuscì a impadronirsi di una grande nave che trasportava merci ricchissime ed era diretta a Venezia con una scorta di ben venti galere; ne era proprietario Capi Aga, Capitano e Maestro della Porta di Palazzo del Sultano e Consigliere del Divano. Balbi aggiunge che la stessa Rossellana[18], la celebre moglie favorita del Sultano, insisteva perché i Cavalieri fossero sterminati perché ostacolavano il pellegrinaggio alla Mecca. La conquista del Peñon de Velez de la Gomera da parte spagnola non fece che aumentare il risentimento del Sultano cui giunsero in seguito le lettere dei personaggi di Corte in prigionia a Malta. Sulaiman allora convocò il Divano, cui partecipavano i più alti dignitari civili, militari e religiosi dell’Impero e esortato da Capi Aga avrebbe deciso di allestire un’impresa contro Malta. Così sarebbero andati i fatti secondo Balbi.[19] In realtà la spedizione era già in preparazione da tempo come ben ha dimostrato Braudel studiando approfonditamente i carteggi diplomatici spagnoli e veneziani: è chiaro a questo punto che le cause sopraccitate non possono che essere considerate occasionali. Nel paragrafo significativamente intitolato Ci fu sorpresa? Braudel dimostra come in Europa si fosse a conoscenza della grande attività che regnava nei cantieri ottomani e che i governanti avevano capito che sarebbe presto giunta la flotta turca. Già a gennaio del 1565, il giorno 20 per la precisione, l’ambasciatore francese a Costantinopoli, scriveva alla regina Caterina de’ Medici che l’obiettivo era Malta ed un avviso il 20 aprile da Ragusa annunciava che le prime 20 galere di Pialì Pasha erano uscite un mese prima dagli stretti dirette verso Malta, a quanto diceva la voce pubblica.[20] Balbi stesso scrive che “I preparativi di una spedizione così formidabile vennero a conoscenza dei Principi Cristiani attraverso Venezia; anche il Gran Maestro della Religione non aveva mancato di ragguagliarli su tutto.” A questo punto mi sembra interessante inserire un paragone cronologico tra i preparativi e il viaggio della flotta turca e quanto facevano i Cavalieri e la Spagna per apprestarsi alla difesa. Si potrà notare come quanto messo in atto dal Viceré di Sicilia Don Garcia Alvarez de Toledo, Marchese di Villafranca[21], scagioni il governo spagnolo dalle accuse mossegli da Manfroni, delle quali ho già avuto occasione di parlare.

Per la tabella sottostante mi baserò esclusivamente su Braudel e Balbi, le fonti più precise ed affidabili, la prima perché basata su un attento lavoro di ricerca archivistica, la seconda perché testimonianza diretta. Laddove ci sono delle discrepanze indico entrambe le versioni.

 

FLOTTA IMPERIALE TURCA

SPAGNA e ORDINE di SAN GIOVANNI di MALTA

 

Febbraio 1565- Costruzione della flotta portata a termine

 

 

 

Marzo 1565- Il 20 (per Balbi il 22) venti galere di Pialì Pasha escono dagli Stretti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aprile 1565- Tra il 17 e il 19 settanta attraversano lo stretto di Negroponte, dopo aver fatto rifornimento di biscotto mentre altre 150 sono a Chio.

 

 

 

 

 

 

Maggio 1565- La flotta tra l’8 e il 10 si concentra a Navarino e Modione; il 17 maggio viene avvistata dal presidio spagnolo di Cassibile; il 18 maggio è al largo di Malta..

 

Febbraio 1565- D. Garcia di Toledo, su ordine di Filippo II si reca a conferire col Papa, con i Duchi di Savoia e Firenze, con la Repubblica di Genova e con il Viceré di Napoli

 

Marzo 1565- D. Garcia salpa per Malta con 30 galere e 3000 fanti alla volta di Malta dove offre al Gran Maestro di lasciare alcuni suoi uomini. Il Gran Maestro declina l’offerta ma accetta l’opportunità di ricevere soccorso dal Viceré in qualsiasi momento. D. Garcia lascia quattro compagnie alla Goletta per la difesa e fa ritorno in Sicilia. Il 22 marzo Filippo II da’ ordini perché siano arruolati 4000 fanti in Spagna, da destinare parte in Corsica, parte alle galere.

 

Aprile 1565- Alcuni informatori asseriscono che il reale obiettivo della spedizione è La Goletta. L’8 aprile il Viceré di Napoli informa Filippo II che è sua intenzione arruolare 10000-12000 uomini e recarsi in Puglia. A Malta il Gran Maestro aumenta le fortificazioni e invia lettere ai Cavalieri residenti all’estero, in Italia in particolare, perché raggiungano Malta per partecipare alla difesa.

 

Maggio 1565- Il 7 maggio viene posta la catena all’imboccatura del Porto e giunge un moro che informa i Cavalieri delle grandi scorte alimentari che il Dey di Tunisi sta approntando per la flotta turca; il 10 D. Juan de Cardona, Capitano Generale delle Galere di Sicilia (spagnolo) porta a Malta la notizia della presenza di galere turche a Modione e sbarca sette compagnie di fanteria spagnole; il 13 maggio con due galere dell’Ordine giunge un’altra compagnia spagnola e un’altra nave sbarca 150 soldati arruolati da Fra’ Raffaello Crescino a Messina e posti sotto il comando di Fra’ Gio. Andrea Magnasco; il 18 maggio la flotta turca è avvistata da Sant’Elmo all’alba a trenta miglia al largo verso Greco-Levante (E-NE); il 22 il Viceré di Napoli informa che la flotta è stata avvistata il 17 presso Capo Passero.

Questa è la successione degli eventi fino al 18 maggio.[22] Il diario di Balbi è a questo punto fondamentale per avere una visione precisa degli eventi che hanno segnato i tre mesi di assedio: mi trovo tuttavia a dover fare una scelta degli eventi particolari più interessanti, inquadrando gli altri in una visione più generale.

Il 18 maggio, una volta avvistata la flotta, furono sparati i colpi di cannone per segnalare il pericolo in modo che i contadini potessero rifugiarsi dentro le mura del Borgo; il Gran Maestro tuttavia pensò che fosse meglio trasferire parte dei civili a San Michele e incaricò di questa operazione il Commendatore Gabriel Gort. Una volta capito che la flotta avrebbe cercato di sbarcare le fanterie a Marsa Scirocco uscirono alcune compagnie a cavallo (1000 uomini in tutto) per contrastare lo sbarco: i Turchi capite le intenzioni dei nemici cominciarono a costeggiare l’isola verso Libeccio (SO) per valutare la possibilità di cercare altri approdi. I reparti a cavallo seguirono la flotta avversaria lungo la costa, rientrando al Borgo solo a notte fonda. Il 19 maggio vi furono i primi scontri tra reparti di Turchi sbarcati nottetempo e compagnie melitensi a cavallo con una prima vittima da parte cristiana, Fra’ Bendo de Mezquita della Lingua di Castiglia, ucciso per la sua imprudenza. Fra’ Adrien de la Riviére della Lingua di Francia fu ferito e preso prigioniero, morendo pochi giorni dopo. Un rinnegato napoletano lo stesso giorno riuscì a raggiungere le postazioni melitensi e riferì dell’intenzione da parte dei Turchi di prendere Malta e La Goletta: è il primo di una lunga serie che si presenterà ai reparti di Cavalieri, informandoli sulle intenzioni dei Turchi. Tra il 18 e il 19 sbarcarono 3000 Turchi, il 20 ben 20000: l’isola fu facilmente occupata da costoro, mentre i Cavalieri mantenevano il fortino di Sant’Elmo (posto fra Marsa Muscetto e la Città Vecchia), il Borgo e i forti di San Michele e Sant’Angelo. I due comandanti turchi (è un rinnegato passato nelle file cristiane a riferirlo a Balbi), quello della flotta Pialì Kapudan-Pasha e quello delle fanterie Mustafa Pasha, Gran Serraschiere, entrarono subito in conflitto fra loro, più per gelosia che altro: il primo insisteva per concentrare i bombardamenti su Sant’Elmo, il secondo aveva concepito un piano più vasto, attaccando anche la Città Vecchia e gli altri forti.[23] Il Consiglio di guerra turco preferisce il piano di Pialì, evitando così involontariamente ai Cavalieri un impegno più arduo; Balbi in proposito scrive:

 

“Se il piano del Serraschiere [Mustafa Pasha] fosse stato messo in atto, noi saremmo stati perduti, perché tutti dipendevamo, per gli aiuti, dalla Città Vecchia.

Ma Dio Onnipotente non ha voluto la nostra sconfitta e per Sua volontà, i due Pascià, gelosi l’uno dell’altro, non si sono accordati; il risultato dei loro errori è evidente e, per noi, tanto favorevole.”[24]

 

Tra il 25 e il 27 maggio i Turchi sbarcarono le artiglierie ed eressero le piattaforme dove posizionarle. Il 27 va ricordato ancora per due eventi: l’arrivo di Ulugh Alì Fartas[25] con le sue galere e la fuga dal campo turco di un rinnegato spagnolo, tale Alonso, che era divenuto ad Algeri personaggio di grande riguardo (Segretario del Dey e istitutore del figlio di questi), e che informò i Cavalieri del dissidio fra gli ufficiali e ottomani e dei loro piani tattici.[26]

Il 28 maggio cominciò il bombardamento su Sant’Elmo e su altre postazioni minori vicine, dapprima leggero ma poi sempre più potente e preciso col passare dei giorni. Il 2 giugno giunse da Tripoli Dragut con la propria flotta ed il giorno successivo i Turchi, sicuramente elettrizzati dall’arrivo del glorioso comandante, riuscirono a prendere il rivellino (la parte più esterna) del Forte di Sant’Elmo. Nei giorni successivi i Cavalieri chiusi nel Forte resistettero coraggiosamente, tentando alcune sortite che si rivelarono infruttuose, aumentando solo il numero dei morti e dei feriti. L’8 giugno alcuni Cavalieri scrissero al Gran Maestro chiedendo di poter affrontare il nemico in campo aperto, preferendo morire in combattimento che sotto i colpi di cannone. Jean Parisot li esortò a rimanere nel Forte e cercare di resistere: lo stesso giorno i turchi sferrarono un attacco in grande stile contro i Cavalieri ma furono costretti alla ritirata, lasciando sul campo 500 morti (contro i 40 da parte melitense). Nei giorni successivi il Gran Maestro, deciso a non abbandonare le postazioni occupate, continuò a controllare la situazione al Forte attraverso i propri inviati che constatarono come la situazione fosse disperata, in particolare a livello psicologico: i primi tre inviati, Fra’ Costantino Castriota, Fra’ Francisco Ruiz de Medina e Fra’ Antoine de la Flotte de la Roche, rischiarono di rimanere chiusi nel Forte per l’opposizione dei difensori che non volevano permettere loro di tornare dal Gran Maestro e riuscirono solo a salvarsi per uno stratagemma del comandante, Fra’ Juan de Egaras, Balì di Negroponte, che fece suonare l’allarme, facendo sì che gli uomini corressero ai posti di difesa, permettendo ai tre malcapitati di poter uscire da Sant’Elmo.[27] Una settimana dopo, il 16 giugno, vi fu un nuovo attacco dopo la preghiera mattutina; Balbi mostra qui di non conoscere la religione islamica, dicendo che “Due ore prima del levare del sole, i loro Imani hanno dovuto assolverli dai loro peccati, esortandoli a ben combattere ed a morire per la loro falsa fede. Così almeno appariva, perché prima sentivamo uno che cantava e, poco dopo, tutto l’accampamento che rispondeva”.[28] Lo scontro fu furibondo e durò sette ore, causando la morte di 150 difensori e 1000 Turchi; nella notte il Gran Maestro inviò 150 soldati e un contingente di guastatori al forte. Il 18 giugno segnò la fine dell’esistenza terrena di Dragut: il celebre corsaro (rivelatosi uno dei migliori comandanti turchi durante l’assedio) stava correggendo il tiro della sua batteria di cannoni, dando la schiena a questa e facendo ripetere la riduzione dell’alzo due volte quando per un tiro risultato troppo corto un colpo partito da una delle sue bocche da fuoco esplose sulla trincea che gli stava davanti, causando una pioggia di schegge di roccia, una delle quali lo ferì mortalmente alla testa.[29] Si apre ora un piccolo giallo: sia Panetta[30] che Bradford[31] sostengono che il colpo mortale proveniva dalla batteria melitense del Forte di Sant’Angelo, ambedue senza indicare la fonte delle loro affermazioni; a questo punto non vedo perché non credere a Balbi (che riporta le affermazioni di un rinnegato), testimone diretto, notando inoltre che i bombardamenti non erano così intensi da non poter capire da dove provenisse un colpo.

La situazione del Forte di Sant’Elmo era ormai disperata, isolato non poteva ricevere alcun soccorso: gli ultimi tentativi di raggiungerlo via mare furono vanificati dalla presenza di 80 galere nemiche alla fonda al largo della Punta dell’Arenella. “Ma in Sant’Elmo nessun Capitano è più in vita. Cinquecento uomini son morti: quasi tutti son feriti, torturati dal peso dell’armatura, dall’afa, dalla sete, senza speranza di soccorso” scrive Balbi, e ancora “Nella notte quei di Sant’Elmo, convinti ormai di non poter più ricevere soccorso, decidono di morire servendo Nostro Signor Gesù Cristo e vanno l’un l’altro confortandosi. […] E quegli uomini per i quali domani potrà essere l’ultimo giorno sulla terra, si confessano l’un con l’altro e implorano Nostro Signore di avere pietà delle anime loro, per amore del Sangue che egli ha versato per redimerli.”[32] Pochi giorni dopo, il 23 giugno, un ultimo assalto turco riuscì ad annullare l’ormai inesistente resistenza dei difensori: solo otto Cavalieri sopravvissero, mentre quelli morti furono 124, i soldati delle compagnie spagnole e di ventura defunti furono circa 1400. I turchi infierirono sui cadaveri dei nemici, decapitando gli ufficiali e adornando le punte delle lance con le loro teste, crocifiggendo altri su antenne e scudi, squartandoli o decapitandoli, gettandoli poi in mare per essere trascinati dalla corrente verso le postazioni cristiane.[33] I Turchi nell’assedio a Sant’Elmo avrebbero perso ben 8000 uomini, tra cui molti ufficiali.[34]

Mustafa Pasha ora, conquistato Sant’Elmo, diresse la propria azione contro il Borgo e contro San Michele. A questo punto è necessario però ricordare come già nei mesi di maggio e giugno il Gran Maestro avesse inviato in Sicilia piccole imbarcazioni (saettie, fruste e simili) con dispacci e richieste d’aiuto: questo rischiosissimo incarico – bisognava, infatti, eludere la sorveglianza delle numerosissime imbarcazioni ottomane – fu spesso affidato ad un genovese, il Sergente Maggiore Fra’  Raffaele Salvago che fece spesso la spola tra Malta e la Sicilia a rischio della propria vita. Accenno ora a queste azioni perché proprio lo stesso giorno della presa di Sant’Elmo furono avvistate nel Canale di Sicilia quattro galere cariche di truppe ausiliarie; tuttavia esse procedevano troppo lentamente, tanto “che il Gran Maestro teme che esse arrivino troppo tardi, e dopo che i Turchi avranno investito il Borgo e San Michele.”[35] Il 30 giugno Juan de Cardona, Comandante delle Galere di Sicilia, riuscì a sbarcare il Piccolo Soccorso di 740 uomini, composto parte da Cavalieri (49, di cui 28 italiani) al comando di Fra’ Henry Parisot de la Valette (nipote del Gran Maestro) e parte di compagnie di ventura reclutate dalla Spagna (600 fanti, 50 artiglieri e 38 nobili volontari) e poste sotto il comando del Maestro di Campo Don Melchior de Robles. I soldati riuscirono a sbarcare e raggiungere la Città Vecchia senza incontrare resistenza alcuna, il che mostrò come i Turchi non avessero un pieno controllo delle coste e dell’isola stessa. Il Gran Maestro opportunamente non diffuse la notizia dell’arrivo e anzi prima di inviare le truppe alla Posta di Castiglia, presso il Borgo, stese un piano tattico, scegliendo un percorso che consentisse di evitare le postazioni Turche, passando lontano dalle zone perlustrate da pattuglie nemiche. Fu ancora fondamentale l’aiuto di un rinnegato, un nobile greco, tale Lascari (Laskaris), fuggito a nuoto dall’accampamento turco il 30 giugno. Il 3 luglio il Piccolo Soccorso raggiungeva la postazione assegnata, mentre il bombardamento turco continuava incessante, diretto non solo contro le installazioni militari ma anche contro le abitazioni  civili del Borgo, uccidendo donne e bambini maltesi che prestavano aiuto nelle opere di rafforzamento delle fortificazioni.  In quei giorni continuavano le diserzioni da una parte e dall’altra: un greco che tentava di raggiungere le linee turche fu catturato da alcuni soldati a cavallo e fu interrogato e poi pubblicamente squartato.[36] Pialì Pasha inviò anche un soldato per chiedere la resa dei Cavalieri (tutto questo accadeva il 29 giugno) ma il Gran Maestro non solo rifiutò di trattare ma per spaventarlo ordinò di farlo impiccare; dopo averlo graziato lo fece bendare e condurre presso le fortificazioni del Borgo, facendogli chiedere dai Cavalieri di scorta cosa pensasse dell’assedio: alla vista dello spessore delle mura e dei fossati asserì che mai i Turchi avrebbero preso Malta.[37] Frattanto le opere di difesa si estendevano anche alle coste: alcuni Maltesi (abituati a nuotare sott’acqua per la pesca delle spugne) eressero, sotto la direzione dei Cavalieri, palizzate di legno e sbarramenti sottomarini di catene, per impedire un attacco navale che consentisse lo sbarco di truppe a Marsa Muscetto, dove ormai le imbarcazioni nemiche erano più di settanta.[38] L’attacco con forze ingenti che molti si aspettavano fu portato dai Turchi contro San Michele il 15 luglio; le palizzate si rivelarono un’ottima difesa: mentre le imbarcazioni degli invasori era spinte contro di esse, gli archibugieri e gli artiglieri aprivano il fuoco sugli occupanti che tentavano di raggiungere la riva a nuoto e che erano ingaggiati in lotte corpo a corpo da molti maltesi che si gettavano in acqua per fermarli. Tra i tanti che si segnalano nelle azioni vi sono lo stesso Balbi e il genovese Fra’ Gregorio Adorno che rimane ferito negli scontri. In cinque ore di assalto perdono la vita 200 difensori (di cui 62 Cavalieri, compresi 4 Cappellani dell’Ordine) e non meno di 4000 Turchi.[39] Tra i Cavalieri che persero la vita ve ne furono due neanche diciottenni: Fra’ Jaime de Sanoguerra (della Lingua d’Aragona), nipote del valoroso ufficiale Fra’ Francisco de Sanoguerra, anch’egli rimasto ucciso a San Michele (e Balbi si distinse per averne recuperato il cadavere a rischio della propria vita) e Fra’ Federico Alvarez de Toledo (della Lingua di Castiglia), figlio di Don Garcia, il Viceré di Sicilia. Il commento di Balbi è toccante ed efficacissimo nel comunicare lo strazio dei Cavalieri nel dover aver assistito alla morte di due confratelli poco più che ragazzini:

 

“Accanto ai Cavalieri più Anziani, seppelliamo due giovanissimi: Don Jaime de Sanoguerra, nipote di Don Francisco e Don Federico de Toledo, figlio di Don Garcia, rimasto ucciso da un colpo di cannone mentre stava con Don Jaime. E’ molto triste vederli morti questi due giovani Cavalieri che hanno sempre bravamente combattuto”[40]

 

Nell’assalto poi fu fondamentale l’abilità del Commendatore Francisco de Guiral che seppe indirizzare con enorme precisione e tempismo la propria batteria di cannoni, colando a picco ben nove imbarcazioni che trasportavano 800 tra Giannizzeri e Leventi (mercenari turchi): queste facevano parte di un gruppo di dieci dirottate da Pialì Pasha verso la punta dello sperone della Marsa, dove la palizzata era meno robusta e priva di catene. Se la Posta di de Guiral non le avesse fermate le truppe trasportate sarebbero sbarcate facilmente, cambiando le sorti della battaglia.

I giorni successivi furono caratterizzati dal continuo bombardamento da ambo le parti e da piccoli scontri e scaramucce, assalti e sortite a ranghi ridotti. Il 2 agosto fu sferrato un nuovo attacco contro San Michele, in particolare contro la Posta di Don Melchior de Robles, dopo che l’artiglieria turca ebbe bombardato fino a mezzogiorno; in cinque ore di combattimento ferocissimo perirono 600 turchi e 40 tra soldati spagnoli e Cavalieri. Il bombardamento continuò per altri cinque giorni finché il 7 agosto l’attacco non fu rinnovato, e questa volta con più vigore. Gli attacchi furono diretti contro il Borgo (ed in particolare contro la Posta di Castiglia) e contro San Michele:  in nove ore non meno di dodici volte i Turchi si gettarono furiosi contro le posizioni nemiche, riuscendo a superare le difese più esterne. Al Borgo coloro che fecero irruzione nelle brecce trovarono ad accoglierli un fuoco incrociato che li disperse facendoli indietreggiare nelle trincee; a San Michele, invece, la situazione fu più grave, essendo i Turchi riusciti ad irrompere nella fortezza. I difensori furono però salvati da un’improvvisa ritirata: i Cavalieri pensarono che i tanto attesi rinforzi dalla Sicilia dovessero essere finalmente giunti; anche Mustafa Pasha ricevette un messaggero che asseriva che truppe a cavallo stavano devastando l’accampamento alla Marsa, dove erano rimasti solo malati e feriti. Si trattava tuttavia solo di piccoli reparti di cavalleria e fanteria, duecento uomini in tutto e non del Soccorso: l’effetto fu tuttavia quello voluto, cioè distogliere i Turchi dal pesante attacco che li avrebbe facilmente condotti alla vittoria. Alla difesa del Borgo partecipò lo stesso Gran Maestro, raggiungendo la prima linea e mettendo a serio repentaglio la propria vita. Ancora una volta le perdite furono pesantissime, da ambo le parti: 2000 Turchi (tra essi il celebre corsaro Ulugh Alì detto il Greco per distinguerlo da Ulugh Alì Fartas) e 69 Cavalieri, oltre ad un numero imprecisato di fanti delle compagnie di ventura.[41]

Ancora continuava il bombardamento delle posizioni gioannite con tale veemenza che ci si rese ben presto conto che la sorte del Borgo e di San Michele era molto insicura: il Gran Maestro tuttavia non volle abbandonare le posizioni tenute, nonostante le esortazioni a farlo rivoltegli dai Consiglieri più autorevoli. Il 20 agosto furono rivolti nuovi assalti contro San Michele e contro la Posta di Castiglia e ancora il Gran Maestro combatté personalmente, così come faceva nell’esercito avversario Mustafa Pasha, anche egli settantenne. Volgendo ormai l’estate al termine i Turchi aumentarono i propri sforzi intensificando i bombardamenti ma le loro fanterie risentivano della mancanza di viveri, della dissenteria e delle epidemie e del clima terribile; inoltre i due comandanti, Pialì e Mustafa erano in continuo dissenso: il primo avrebbe voluto levare l’assedio temendo il cattivo tempo autunnale, il secondo invece avrebbe preferito mantenere l’assedio anche nell’inverno, fiducioso nell’arrivo di provviste e rinforzi da Costantinopoli e dalla Barberia. Anche lo schieramento cristiano risentiva tuttavia degli stessi problemi e l’Ospedale alla Città Vecchia era gremito di feriti e mutilati: quotidianamente Balbi registra il decesso di qualche Cavaliere e riferisce dei lavori di rafforzamento resi difficoltosi dalla mancanza di manovalanze.[42]

Si sperava nell’arrivo degli aiuti e la notizia che il Principe Gio. Andrea Doria era sbarcato a Malta il 31 agosto per studiare la situazione rinfocolò notevolmente le speranze degli assediati.[43] A questo punto è necessario abbandonare un attimo la narrazione del Balbi per vedere cosa la Spagna avesse fino a quel momento fatto per portare soccorso a Malta assediata. Cosa impediva un rapido soccorso a Malta? Non certo la lentezza e l’incapacità di Filippo II e del Viceré di Sicilia come vorrebbe il Manfroni. Braudel ha individuato con grande lucidità le ragioni del ritardo: in primo luogo la difficoltà navigazione attraverso il Golfo del Leone (l’area del Mediterraneo più rischiosa per forza delle tempeste e intensità dei moti ondosi) ed inoltre i numerosi compiti di polizia, rifornimento e trasporto che impegnavano la flotta spagnola nell’usuale guerra contro i corsari. Non va dimenticata la rivolta di Sampiero di Bastelica, fomentata dai Francesi, che impegnava un buon numero di fanti in Corsica. La squadra di Spagna, comandata da Don Alvaro de Bazàn, Marchese di Santa Cruz,[44] era impegnata nei rifornimenti di Orano e Mers-el-Kebir e solo il 25 luglio poté raggiungere Napoli, dopo essere partita a maggio da Malaga. Don Garcia dovette anche egli impiegare simili tempi per concentrare le galere e i fanti a Messina: il 25 giugno, due giorni dopo la caduta di Sant’Elmo, disponeva solo di venticinque galere e solo alla fine di agosto poté riunirne un centinaio, numero sufficiente per trasportare un numero di fanti che potesse garantire la vittoria.[45] In un Consiglio tenutosi a Messina (Siracusa per Manfroni) fu deciso di aspettare Gio. Andrea Doria e poi di salpare: la flotta di soccorso comprendeva sessanta galere, su cui erano stati imbarcati ottomila (altre fonti dicono sedicimila) fanti. Manfroni elenca diligentemente lo schieramento delle galere, riprendendolo dal Bosio:

 

“…s’era mandato innanzi una nave esploratrice agli ordini di Gian Andrea D’Oria; le altre erano state distribuite in tre gruppi: all’avanguardia Don Garzia colle otto galee di Spagna, due di Savoia, tre di Firenze, due di Genova, tre di Napoli e due di Malta; al centro Don Sancho de Leyva con sette di Napoli, quattro di Firenze e gli ausiliari ([de] Mari, Lomellini e Grimaldi); alla retroguardia il Cardona con otto di Sicilia, otto di G. Andrea e tre del Centurione.”[46]

 

Francesco Balbi riporta anch’egli la distribuzione delle navi del Grande Soccorso:

 

“Le forze del Soccorso erano state sbarcate a Mellica dall’Armata comandata da Don Garcia, Capitano Generale, che era all’avanguardia ed aveva sotto il suo diretto 20 galere: 8 di Spagna, 2 di Savoia, 3 di Firenze, 3 di Don Alvaro de Bazàn, 2 di Genova e due della Religione.

La battaglia era agli ordini di Sancho de Leyva e componevasi di 19 galere: 7 di Napoli, 4 di Firenze, 2 di Bazàn, la Seraphina di Spagna, le due Capitane di De Mari e Giorgio Grimaldi e le tre dei Lomellini.

Don Juan de Cardona era al comando della retroguardia con 8 galere di Sicilia, 8 di Giovanni Andrea Doria e 3 dei Centurione.”[47]

 

Il 26 agosto la flotta lasciava la Sicilia: il cattivo tempo, tuttavia, la sospinse alla deriva sino a Favignana e di lì fece vela per Trapani (Siracusa per Manfroni) approdandovi. Qui un migliaio di soldati approfittò della sosta per disertare. Da Trapani, calmatosi il mare e acquisito vento favorevole, la flotta raggiunse Lampedusa e poi Gozo. Il 5 settembre durante l’attesa del concentramento delle navi, Don Garcia tornò in Sicilia (questo episodio gli causerà il rancore di molti storici), non per fellonia ma per imbarcare le truppe del Duca d’Urbino poste sotto il comando del cognato di questi, il Conte milanese Pietro Antonio Lonati. Il 6 Gio. Andrea Doria si imponeva categoricamente perché la flotta riprendesse il mare. Il 7 settembre la flotta fu avvistata dagli assediati, preannunciata dal fermento nel campo turco.[48] I primi contingenti di fanterie sbarcavano all’alba dell’8 settembre sotto il comando di Alvaro de Sande e di Fra’ Ascanio della Cornia, nella baia di Mellicca (Mellieha), a nord-ovest dell’isola. A questo punto Mustafa Pasha decise di togliere l’assedio, nonostante avesse ancora a disposizione ventimila uomini. Cominciò ad imbarcare le artiglierie e la  sera i turchi avevano abbandonato le trincee, evacuando Sant’Elmo e dando fuoco alle piatteforme dei cannoni. Il corpo di spedizione giunse faticosamente alla Città Vecchia e fu alloggiato in grandi magazzini posti all’esterno della cinta muraria. Il Gran Maestro considerò che era inutile far avanzare le truppe sino alle posizioni turche, ingombre di detriti e di cadaveri, focolai di contagio di peste quando ormai gli avversari erano quasi tutti imbarcati. L’11 settembre Mustafa Pasha, informato da un soldato spagnolo morisco della reale consistenza numerica dei nemici, sbarcò un migliaio di soldati, tentando un disperato colpo di mano per prendere la Città Vecchia ma i difensori ebbero facilmente ragione degli avversari, decimandoli nei vicoli, inseguendoli fino alla costa, costringendo molti di essi a tuffarsi in acqua, annegando nel tentativo raggiungere le proprie galere. A questo punto i Turchi salparono e il 12 settembre l’ultima vela ottomana spariva all’orizzonte. Due giorni dopo l’Armata di Don Garcia che aveva sbarcato a Siracusa le truppe poco prima imbarcate a Messina faceva il suo trionfale ingresso nel Porto, tra salve di cannone e grida di giubilo. Reimbarcate le fanterie spagnole di Napoli e Sicilia volse le prore a Levante, nella speranza di catturare qualcuna delle navi della retroguardia nemica, raggiungendo così Cerigo il 23 settembre, rimanendovi in agguato una settimana ma poi desistette dal suo intento per il cattivo tempo, facendo ritorno a Messina il 7 ottobre.[49]

 

 

Le conseguenze dell’assedio a Malta

 

Il Gran Maestro si trovò a fronteggiare in seguito all’assedio una situazione drammatica: in tre mesi erano periti 217 Cavalieri, 32 Fratelli Serventi e 7 Cappellani, 7000 Maltesi (compresi donne, bambini ed anziani) e 500 schiavi. La popolazione dell’isola era stata duramente colpita anche nei beni: case bombardate, bestiame razziato, campi incendiati. Tra i Cavalieri superstiti pochi erano quelli che non fossero rimasti, feriti, mutilati o menomati. Il Gran Maestro si trovò senza un contingente che potesse difendere l’isola: su 9000 soldati di stanza a Malta prima dell’assedio solo 600 potevano ancora essere validi, 2500 erano quelli morti, mentre i restanti erano rimasti invalidi.[50]

I vantaggi dell’assedio si sentirono comunque presto: l’Ordine aveva raggiunto una fama tale da non essere mai più scalfita e giunsero lettere di congratulazioni anche da Principi Luterani e Calvinisti della Germania Centrale. La Regina Elisabetta Tudor, figlia di un re, Enrico VIII, che nel 1534 aveva espropriato ogni bene della Lingua d’Inghilterra, incaricò l’Arcivescovo di Canterbury di redigere uno speciale sermone da leggersi tre volte la  settimana per tre settimane in tutte le chiese del regno. A Roma, più che altrove, il tripudio fu enorme e i Principi Romani fecero a gara nell’organizzare le feste più sontuose, mentre nelle chiese si ringraziava incessantemente Dio e si celebravano le gesta dei Cavalieri.[51]

Il morale dei Cavalieri a Malta tuttavia rimaneva bassissimo e il Gran Maestro faticò molto a trattenerli sull’isola (le reliquie e gli oggetti di valore erano già stati imballati per essere spediti per la spedizione): ormai c’erano più macerie che case in piedi e le fortificazioni erano gravemente danneggiate. A questo punto però si nota la grandezza dell’uomo Jean Parisot: riprendendo dei vecchi progetti di costruzione di una città sul Monte Scebarras che dominava le penisole del Borgo (Birgu) e di San Michele (Sanglea), richiese a Papa Pio IV l’invio di un progettista militare che potesse rendere più stabile la posizione dei Cavalieri nell’isola. Altri Italiani (anche famosi, come Bartolomeo Genga) erano già stati sull’isola e avevano tracciato progetti ma Francesco Laparelli da Cortona, allievo e assistente di Michelangelo superò qualunque altro architetto militare, realizzando una delle opere fortificate più formidabili dell’Europa intera. Alla fine di dicembre Laparelli giunse a Malta e cominciò subito l’ispezione e cominciò l’ispezione del Grande Porto e delle fortificazioni poste a difesa di questo: propose subito di ristrutturare e rafforzare San Michele ed il Borgo, temendo un ritorno dei Turchi prima di aver realizzato la città fortificata. Laparelli dimostrò subito la propria abilità sottoponendo all’attenzione del Consiglio un progetto che rispondeva in pieno a tutti i problemi che la difesa dell’isola poneva. La nuova città sarebbe sorta sul Monte Scebarras e sarebbe stata protetta sul fianco meridionale dal Forte di Sant’Elmo, ampliato e rafforzato: la posizione permetteva di dominare il Porto e la Marsa, mentre San Michele ed il Borgo avrebbero protetto il fianco meridionale del Porto. L’ingegnere espresse di fronte ai Cavalieri che volevano abbandonare l’isola che questa presentava vantaggi che difficilmente si potevano riproporre in altre parti del Mediterraneo: Malta era un fortezza naturale, abbondante di pietra da costruzione resistente e già dotata di fortificazioni possenti, seppur in parte diroccate. Laparelli e La Valette riuscirono assieme, dunque, a vincere le opposizioni e il 28 marzo 1566 il Gran Maestro poté porre la prima pietra della nuova città che prese il nome di Civitas Humilissima Valettae, quella che ora si chiama La Valletta (il nome in italiano sembra suonare come “piccola valle”, mentre in realtà è costruita sopra una montagna).[52]

La realizzazione presentava ovviamente costi a livelli astronomici e proprio questa ragione aveva fatto desistere i Cavalieri da metterla in atto negli anni ’40 e ’50, all’epoca dei primi progetti. Ora però l’Europa tutta aveva un debito enorme di riconoscenza verso l’Ordine, tale che se qualche Principe si fosse sottratto dall’inviare donativi sarebbe apparso un ingrato ed un miscredente. Il nuovo Pontefice, l’alessandrino Pio V Ghislieri inviò un enorme donativo, attingendo anche ai patrimoni personali che i suoi nipoti Bonelli (il Cardinale Nipote Antonio, Gerolamo, Marchese di Cassano e Michele, Duca di Salci) si erano costruiti in brevissimo tempo. Tra i sovrani europei i più generosi furono Sebastiano d’Aviz, Re del Portogallo[53] e Carlo IX, Re di Francia, ma soprattutto Filippo II di Spagna. Il contributo più straordinario fu, poi, quello degli stessi Cavalieri dell'Ordine: alcuni di loro versarono dai propri patrimoni famigliari somme ingentissime e le Commende e i Baliaggi di tutta Europa misero a disposizione per intero il denaro di cui erano in possesso.[54]

L’Ordine si trovava ora ad aver acquisito una grandissima fama, tale da suscitare in chiunque, in Occidente, la più grande ammirazione. Jean Parisot si vide offrire (come era già accaduto a Pierre D’Aubusson) il cappello cardinalizio ma umilmente e intelligentemente rifiutò quest’onore affermando che in qualità di Gran Maestro dell’Ordine di San Giovanni si sarebbe spesso trovato a compiere azioni che non rientravano pienamente nel codice etico richiesto ad un porporato. A livello popolare l’Ordine raggiunse una fama quasi mitica e le sue gesta furono cantate in ballate e narrate dai cantastorie e descritte in manifesti murali. Il Salomone Marino e il Pitré hanno raccolto innumerevoli testimonianze di questo entusiasmo popolare, mostrando come, in particolare nel Sud d’Italia: tra i canti ricorrenti in più regioni ce n’è uno che parla esplicitamente dei Cavalieri di Malta e della loro azione contro la flotta ottomana (numerosissimi sono, poi, quelli che citano i Cavalieri come antagonisti dei corsari). Se ne trovano versioni in Sicilia, nel Mezzogiorno, in Lazio e Toscana: trascrivo il testo il testo in siciliano, in quanto tradotto avrebbe perso molto del fascino originale.

 

La Gran Surdana tantu annuminata

Dunni passava, trimava lu mari;

e tutta di cannuna priparata

era ‘nforma ‘na rocca ‘n mezzu mari.

[…]

Tutta la so putenza finiu,

pi li Regni Cristiani ‘un cc’è cchiù scantu:

di Màuta la squadra la vinciu

ca porta ‘n puppa chiddu Signu Santu

cci fu l’ajutu e vuluntà di Diu,

lli cavaleri nn’appiru lu vantu.[55]

 

 

A Malta tuttavia si temeva ancora un attacco turco ma vi furono due eventi che lo scongiurarono: l’esplosione dell’Arsenale Maggiore di Costantinopoli (alcuni addebitano l’incidente all’azione di alcune spie di La Valette, riprendendo una infondata affermazione dell’abate Vertot[56]) e la morte dello stesso Sultano Sulaiman (5 settembre 1566) mentre era in procinto di invadere l’Ungheria.[57]

Nel giugno 1568 la salute del Gran Maestro declinò rapidamente, conducendolo alla tomba all’età di settantaquattro anni. Venne sepolto alla Valletta e l’epitaffio tombale fu scritto da Fra’ Oliver Starkey, un Cavaliere inglese che aveva combattuto all’assedio, comandando una Posta.[58]

 

“Qui giace La Valette, uomo degno di eterno onore. Sferza dell’Africa e dell’Asia e scudo dell’Europa, da dove espulse i barbari con le sue sante armi, egli è il primo dei Cavalieri ad essere sepolto nella città da lui fondata che adorava.”[59]

 

A conclusione di questo lavoro ancora un cenno alla costruzione della Valletta: nel 1569 (Bradford dice 1568) Francesco Laparelli prese licenza e tornò in Italia, lasciando alla direzione dei lavori il suo assistente, il maltese Gerolamo Cassar. Come successore di La Valette, venne eletto Gran Maestro il Piliere della Lingua d’Italia e Grande Ammiraglio dell’Ordine Fra’ Pietro del Monte.[60] Al binomio Laparelli-La Valette si sostituì quindi quello Cassar-del Monte a cui si deve il completamento della città. La Valletta, costruita col calcare maltese, fu dotata di un Ospedale, di chiese e palazzi, oltre che di fortezze, aumentando nei secoli di estensione di grandiosità: venne creato un vero e proprio stile, il barocco maltese, caratterizzato da una austera eleganza che lo distingue dalle espressioni analoghe di altre parti d’Europa. Dalle macerie grande assedio era nata una delle città più belle del Mediterraneo: il ricordo dell’evento rimaneva anche legato alla nuova sede dei Cavalieri così come con questa fu eternato il nome del Gran Maestro che lia aveva guidati in quei momenti drammatici.[61]

 

 

 

Parte 1

 

Appendice

 

Appendice 2

 

Bibliografia essenziale

 

 

 

 

INDICE



[1] RINALDO PANETTA, Pirati e Corsari turchi e barbareschi nel Mare Nostrum, XVI secolo, Milano 1981,voll. I e II, passim. Un simile giudizio trapela da ogni pagina del volume e costituisce una delle maggiori debolezze di uno scritto non del tutto privo di pregi. Un’acrimonia così sfacciata contro l’Islam inficia gravemente l’esito della ricerca storica non priva di valore condotta dal colonnello Panetta.

[2] I fanarioti erano i discendenti dei mercati che risiedevano nel Fanar, quartiere greco di Istambul. A metà strada fra nobili funzionari e commercianti-imprenditori, assursero a grande importanza nei secoli XVI e XVII, divenendo intermediari fra la Sublime Porta e le genti greche e slave dell’Impero. (PIERRE LAMOISIN (diretto da), Généalogie de l’Europe de la préhistorie au XX siècle, Parigi 1994, p. 205)

[3] ABDERRAHMAN AYOUB, JAMILA BINOUS, ABDERRAZAK GRAGUEB, ALI MTIMET e HEDI SLIM., Umm el Madayan, una città araba del Nord Africa, Milano 1993, pp. 48-53. Panetta nella sua opera sostiene che gli Ebrei erano stati spogliati di ogni bene, così come sarebbe accaduto ai Moriscos. Non so su quali basi possa giustificare tale affermazione ma mi sembra rientrare nel progetto di dipingere i Nord Africani come ladri e predoni più che in un’attenta analisi della situazione sociale (R. PANETTA, op. cit., p. 9)

[4] Bey è titolo equivalente a principe, era inferiore a quello di Pasha ed era conferito ai governatori delle provincie, o, appunto, ai sovrani vassalli del Sultano; Dey, invece, che significava “zio materno” era conferito ai capi delle milizie di giannizzeri e divenne a partire dal 1671 il titolo del sovrano di Algeri che era eletto dall’esercito (in precedenza fu eletto dai capi corsari). A Tunisi il sovrano ebbe il titolo di Dey dal 1591 al 1705.

[5] FERNAND BRAUDEL, Civiltà ed imperi del Mediterraneo, Torino 1953, vol. II, p. 1075

[6] F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, p. 1076

[7] CAMILLO MANFRONI, Storia della Marina Italiana, vol. II da Costantinopoli a Lepanto, Roma 1897

[8] F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, p. 1158

[9] F. BRAUDEL, op. cit., ibidem

[10] F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, pp. 1075-1085

[11] Jean Parisot de la Valette, provenzale, è il più celebre Gran Maestro dell’Ordine di San Giovanni. Era nato nel 1494, era Cavaliere dal 1514 e tra i molteplici incarichi ricoperti prima dell’elezione a Gran Maestro (1557) vi fu quello di Governatore di Tripoli nel 1546-1549. Conobbe anche la schiavitù, prestando servizio al remo in una galera turca per un anno. (ERNLE BRADFORD, Storia dei Cavalieri di Malta, Milano 1975, pp. 136-137)

[12] Dragut è uno dei corsari barbareschi più celebri: si formò nella flotta di Barbarossa. Nato in Anatolia verso il 1500 (fu uno dei pochi corsari nato musulmano e non rinnegato) fu fatto prigioniero nel 1540 da Giannettino Doria ma fu liberato da Kayhr ad-Dhin, stabilì, una volta costituita una propria flotta la sua base a Mahdia che gli fu tolta dagli Spagnoli nel 1550 e si stabilì a Tripoli nel 1551, ottenendone formalmente il governatorato dalla Sublime Porta solo nel 1556. Sconfisse a Gerba gli Spagnoli e i loro alleati e come si vedrà morì nel 1565 a Malta.

[13] F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, pp. 1085-1086

[14] F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, p. 1089

[15] La famiglia Cigala di Genova fu fin dal XIV secolo attiva nel regno di Napoli. Paolo nel 1311 fu Gran Connestabile del Regno e conte di Alife e Galisano. Giovanni Battista fu Viceré di Calabria nel 1450. Molti furono poi gli esponenti che servirono la Spagna per mare: Domenico, Lanfranco, Visconte e Giulio (Ammiraglio di Spagna nel 1587). In cambio ottennero grandi feudi in Sicilia, tra cui il Ducato di Castrofilippo, assegnato nel 1625 a Visconte. La famiglia tuttavia non dimenticò Genova e diede alla Repubblica sette Senatori. Celeberrimo è uno dei figli del barone Visconte di Carlino Cigala, Scipione che catturato da Dragut nel 1561 si convertì all’Islam e divenne il famoso Sinan Kapudan Pasha, ammiraglio del Sultano. Una curiosità: uno degli zii paterni di Sinan, Giovanni Battista, vescovo di Albenga, fu creato Cardinale il 20 novembre 1551 e morì nel 1570. (ANGELO SCORZA, Famiglie Nobili Genovesi, Genova 1924, pp. 74-75)

[16] F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, pp. 1090-1098

[17] E. BRAFORD, Storia dei Cavalieri di Malta, Milano 1975, pp. 137-139.Balbi é definito “soldato di ventura spagnolo”. In realtà era emiliano e Cavaliere dell’Ordine di San Giovanni.

[18] Balbi sostiene che Rossellana addirittura morendo lasciò ogni propria sostanza per finanziare la guerra contro l’Ordina di Malta. La notizia non può essere ovviamente verificata ma è notizia sicura che la sua morte risalga al 1559. Rossellana ebbe sicuramente grandissima influenza su Sulaiman e quindi effettivamente la notizia di un influsso di tale tipo potrebbe avere qualche fondamento. Ella, il cui vero nome era Hurrem, era una schiava di origine circassa e riuscì con intrighi a eliminare le consorti rivali. Falsa la notizia che fosse italiana, riportata per esempio da Panetta che addirittura la individua in Margherita Marsili, figlia del Conte Nanni Marsili Signore di Collecchio e Patrizio Senese, rapita dal pirata Nizzam nel 1543, dando credito ad una leggenda diffusa sui Monti dell’Uccellina. Le date stesse mostrano come tale ipotesi sia del tutto fantasiosa: nel 1559 la Rossellana era quasi sessantenne ed inoltre Selim nacque sicuramente nel 1524; la bella Marsilia, la supposta madre, nacque nel 1527, essendo “sedicenne” al momento del rapimento, risulta così più giovane che suo figlio! Hurrem fece esiliare la prima moglie (kadin) di Sulaiman, Bosfor Sultan, e ne fece giustiziare il figlio, Mustafa Mulhisi, primogenito del Sultano, aprendo così la via alla successione al proprio, il futuro Selim II. Inoltre fu sempre influente nella scelta dei ministri, favorendo l’ascesa del proprio genero Rustem Pasha alla carica di Gran Vizir, dopo aver fatto giustiziare dal marito i precdenti detentori Ibrahim Pasha e Ahmet Pasha. (FRANCESCO BALBI DA CORREGGIO, La verdadera relacion de todo lo que el anno de MDLXV ha succedido en la isla de Malta, de antes quellegasse l’armada sobre ella de Soliman gran turco, nella traduzione italiana pubblicata come Diario dell’Assedio all’isola di Malta, Genova 1995, p. 47; R. PANETTA, op. cit., vol. I, pagg. 137, 137n e 234n; IBRAHIM HAKKI UZUNCARSILI, Osmanli Tarihi, english version, Ankara 1988-1998, vol. III, pagg. 70-75)

[19] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 45-48

[20] F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, pp. 1149-1150

[21] Don Garcia Alvarez de Toledo, marchese di Villafranca, (Villafranca del Biercio 1514-Napoli 1578), figlio di Don Pedro de Toledo, cadetto del 2° Duca d’Alba, Fernando Alvarez de Toledo, e Viceré di Napoli, e di Donna Maria Osorio y Pimentel, era per via della sorella Eleonora cognato di Cosimo de’Medici Duca di Firenze (poi Granduca di Toscana). Fu nominato Capitano Generale del Mare il 10 febbraio 1564. Fu anche Viceré di Catalogna (1558-1564) e di Sicilia dal 1564. Cominciò la sua carriera militare sul mare agli ordini di Andrea Doria con proprie galere nel 1539 e in seguito fu al comando della squadra navale spagnola di Napoli (incarico che lasciò nel 1558). Per i suoi meriti ricevette i titoli di Duca di Ferrandina e di Principe di Montalvan e si segnalò anche per la pubblicazione di alcune opere a carattere storico-militare. Si può notare che era tutt’altro che un uomo di limitate vedute e capacità come alcuni storici italiani ebbero a sostenere, anche in tempi recenti. Un esempio per tutti: Roberto Cantagalli nella sua biografia di Cosimo I de’Medici lo definisce “il mediocre capo dell’esercito vicereale” e “l’inetto don Garzia”  (F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, pp. 1145-1148 e ROBERTO CANTAGALLI, Cosimo I de’Medici, Milano 1985, p. 202 e 233)

[22] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp.  52-65 e F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, pp. 1150-1151

[23] F. BALBI DA CORREGIO, op. cit., pp. 65-72 e F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, p. 1152

[24] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 72

[25] Ulugh Alì, detto Fartas (il Tignoso) era un rinnegato di origine calabrese, Luca (o Giovanni Galeni), catturato sedicenne (forse leggendaria la notizia che fosse un novizio domenicano). Soprannominato Occhialì (anche Luccialì o Uccialì), divenne un valoroso ammiraglio ottomano, segnalandosi a Gerba e combattendo a Lepanto. In seguito fu Pasha, Dey di Algeri e fece erigere a Costantinopoli una moschea.

[26] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp.  75-78

[27] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 78-99

[28] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 99-100

[29] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 103

[30] “Ma quel giorno di giugno recava la data 17 [errore o forzatura degli eventi da parte in chiave romanzesca dell’autore?]: un numero infausto per il pirata. Quel giorno, infatti, suonò la campana della sua fine. Mentre dirigeva i lavori, una grossa palla di ferro sparata dal forte di Sant’Angelo piombò su un grosso macigno a lui vicino: una scheggia di pietra andò a colpirlo in fronte e gli spaccò il cranio.” (R. PANETTA, op. cit., p. 227)

[31] “…persino lo stesso Dragut, colpito al capo da una scheggia di pietra di un proiettile di cannone sparato dal Forte di Sant’Angelo.” Bradford definisce il proiettile di pietra, materiale ben più plausibile del “ferro” di Panetta. (E. BRADFORD, op. cit., p. 152)

[32] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 107

[33] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 115-116

[34] MARIO MONTERISI, Storia politica e militare del Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme detto di Malta, Milano 1940, vol. II, p. 83

[35] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 115

[36] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 121-129

[37] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 120-121

[38] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp.  132-133

[39] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 137-147

[40] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 144

[41] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 172-184

[42] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 192-198 ed E. BRADFORD, op. cit., p. 161-162

[43] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 199

[44] Alvaro Bazàn, Marchese di Santa Cruz (Granada 1526-Lisbona 1588).Entrato in marina giovanissimo, nel 1554 divenne capitano generale di una squadra navale incaricata di difendere le coste spagnole dall’azione di corsari francesi e di difendere le rotte commerciali con le Indie. Nel 1564 fu il principale artefice della conquista del Peñon de Velez de la Gomera e nel 1571 comandò la retroguardia a Lepanto. Fu al comando delle fanterie in Portogallo nella guerra contro Dom Antonio d’Aviz. Priore di Crato, pretendente alla corona reale portoghese in antagonismo a Filippo II che l’aveva legittimamente ereditata. Fu accesso sostenitore dell’invasione dell’Inghilterra ma morì alla vigilia di assumere il comando della Invincible Armada. Nel 1626 per interessamento dei Principi Doria il figlio Don Mauro e il nipote Don Alvaro furono ascritti al Patriziato Genovese: lo Scorza li elenca come “il marchese Don Mauro Bassano di Santa Croce e suo figlio Don Alvaro: ambedue di nazionalità spagnola.” (A. SCORZA, op. cit., p. 27)

[45] F. BRAUDEL, op. cit., vol. II, pp. 1154-1156

[46] C. MANFRONI, op. cit., vol. II, p. 432

[47] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 206

[48] F. BRAUDEL, op. cit., p. 1155; C. MANFRONI, op. cit., p. 432; F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 203

[49] F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., pp. 202-215 e F. BRAUDEL, op. cit., pp. 1155-1157

[50] E. BRADFORD, op. cit., p. 165

[51] E. BRADFORD, op. cit., pp. 166-167 e F. BRAUDEL, op. cit., p. 1157

[52] E. BRADFORD, op. cit., pp. 167-169

[53] Il sovrano era quattordicenne, ed in realtà fu il prozio, il potente Principe Enrico, Cardinale e Arcivescovo di Lisbona, Grande Inquisitore, a aderire entusiasticamente all’impresa. Enrico, alla morte di Sebastiano in battaglia in Marocco (ad Alcazarquivir, in arabo Ksar el-Kebir) il 4 agosto 1578, divenne Re a sua volta, e fu l’ultimo sovrano legittimo della Casa d’Aviz. Morì nel 1580, lasciando la corona a Filippo II di Spagna.

[54] E. BRADFORD, op. cit., p. 169

[55] SALVATORE SALOMONE MARINO, La baronessa di Carini, Palermo 1914, pp. 47-48. Nel primo capitolo di questa monografia dedicata al celebre canto popolare di cui mostrò la fondatezza storica (l’uccisione da parte di don Cesare Lanza della propria figlia Laura, infedele al marito don Vincenzo La Grua e Talamanca, Barone di Carini), il Salomone marino elenca numerosi canti popolari siciliani che narrano vicende storiche: tra questi ve ne sono uno dedicato alla battaglia di Lepanto ed un altro che ricorda la cattura dei due capitani di galere Visconte Cicala e Luigi Ossorio.

[56] L’ abbé RENE’ AUBERT, Sieur de Vertot, Histoire des Chevaliers Hospitaliers de Saint Jean de Jerusalem, Paris 1726

[57] E. BRADFORD, op. cit., p. 170

[58] E. BRADFORD, op. cit., p. 171 e F. BALBI DA CORREGGIO, op. cit., p. 237

[59] E. BRADFORD, op. cit., p. 171

[60] Pietro del Monte era un aristocratico romano. La sua famiglia si chiamava Ciocchi ma aveva mutato cognome con l’elevazione al Pontificato  dello zio del futuro Gran Maestro, il Cardinale Giovanni Maria (Papa Giulio III) che aveva aggiunto al proprio cognome il predicativo “del Monte” perché originario di Monte San Savino, nell’Aretino. Come molti suoi predecessori, anche Giulio III si produsse in una politica nepotistica, facendo nominare il fratello Baldovino Conte di Monte San Savino dal Duca di Firenze e nominando cardinali il cugino Cristoforo Guidalotti del Monte, il nipote Gerolamo Simoncelli del Monte e il figlio adottivo del fratello Innocenzo del Monte. Pietro del Monte era fratello del Cardinale Cristoforo (figlio di una zia del Papa e del nobile Francesco Guidalotti) ed entrò nell’Ordine a venti anni nel 1516. Nel 1533 era Commendatore, nel 1550 Governatore Papale di Sant’Angelo, nell’estate del 1553 Vescovo di Jesi (rinunciando alla diocesi un mese dopo), nel 1555 ammiraglio e nel 1558 capitano generale delle galere dell’Ordine, Piliere della Lingua d’Italia - e di conseguenza Grande Ammiraglio della Religione - nel 1563. Il 23 agosto 1568 era eletto Gran Maestro, conservando tale carica anche all’epoca di Lepanto. Morì nel 1572 (LUIGI BORGIA, Araldica pubblica e privata a Monte San Savino nel quadro della storia toscana e italiana, in Ceramica ed Araldica Medicea, a cura di GIAN CARLO BOJANI, Monte San Savino 1992, pp. 222-228

[61] E. BRADFORD, op. cit., pp. 171-173